Baby influencer: bambini che si ritrovano catapultati in un mondo lavorativo che non gli appartiene, fatto di sponsorizzazioni, pubblicità e collaborazioni. Fino a che punto i social sono strumento di divertimento e quando invece si sfocia nello sfruttamento?
Se i social nascono come piattaforma di intrattenimento, per molti diventano fonte di guadagno e quindi da considerarsi un vero e proprio impiego. Il successo e i conseguenti doveri arrivano senza aspettarseli e su questi canali così moderni manca ancora un divisorio che separi nettamente lo svago dal lavoro.
Bambini in pensione
Andare in pensione a 11 anni sembrerebbe essere uno scherzo, quasi un paradosso, eppure è successo. Pixie Curtis (@pixiecurtis), baby imprenditrice australiana, ha solo 11 anni e durante la pandemia ha lanciato il proprio brand di accessori per capelli “Pixie’s Pix”. Successivamente ha ampliato il proprio commercio anche alla vendita di giochi per bambini. L’azienda è gestita principalmente dalla madre, che aiuta Pixie anche nella gestione dei suoi profili social. Nonostante il fatto che grazie alla propria attività multimilionaria si sia potuta comprare un’auto di lusso, che però ancora non può guidare, Pixie rimane una ragazzina.
Raggiungere il successo è una cosa, la sfida è mantenerlo.
dichiara Pixie a news.com.au. Così, parlandone con la famiglia, che oltre a questo è anche il suo stuff, ha deciso di ritirarsi parzialmente e gradualmente dalla sua attività per vivere con ritmi più adatti alla sua età. Inoltre sostiene che questo le permetterebbe di dedicarsi di più e meglio alla propria carriera scolastica, che al momento giustamente è la sua priorità.
Baby influencer
Pixie oltre ad essere una baby imprenditrice è anche una baby influencer. Nei video che pubblica sul suo profilo Instagram, che conta 135 mila follower, prova e sponsorizza diversi giochi per bambini, oltre naturalmente a pubblicizzare i propri prodotti.
Negli ultimi anni ha preso sempre più piede il fenomeno dei baby influencer, che riguarda la Generazione Alpha, ovvero coloro nati dopo il 2010. Questo è anche conseguenza dell’abbassamento della soglia d’età a cui viene concesso il telefono. Infatti più del 50% dei bambini compresi tra i 5 e i 10 anni possiede uno smartphone personale. Tuttavia in questa fase dello sviluppo il cervello dei bambini è estremamente plastico, motivo per cui un uso eccessivo causa ritardi del linguaggio, disturbi cognitivi, del sonno e comportamenti aggressivi. Ciò che preoccupa ulteriormente è che, come evidenziato dal sondaggio del Centro per la Salute del Bambino Onlus, più del 60% dei ragazzini tra i 9 e i 16 anni ha un profilo su un social network. Limitarsi ad assistere passivamente a ciò che viene creato sui social, se limitato e controllato, non è causa di danni. Il problema sorge quando a creare i contenuti sono proprio i più piccoli.
C’è chi conta a nascondino e chi conta i follower
Vediamo bambini che pur di ottenere e mantenere un alto seguito, sponsorizzano ciò che non gli piace. Molti di loro affermano che si sentono felici quando notano un aumento dei “like” e che i follower sono importanti in quanto permettono di guadagnare e diventare famosi. I piccoli influencer raccontano ingenuamente di sentirsi migliori, più belli e talentuosi, rispetto ai propri compagni di classe “non famosi”. La competitività che sviluppano e la pressione a cui sono soggetti è ben evidente. Il lavoro con i social però è estremamente precario, come evidenzia anche Pixie. La notorietà arriva improvvisamente tanto quanto sparisce improvvisamente. Viene quindi naturale pensare che bambini cresciuti con questi obiettivi e con questi valori, nel momento in cui perderanno il proprio seguito o vedranno questo calare anche solo di poco, possano rispondervi con comportamenti depressivi.
Divertimento o sfruttamento
Probabilmente il lavoro del baby influencer non si considera un impiego vero e proprio solo perché i social nascono come uno strumento di intrattenimento. Tuttavia bisogna tenere in conto che ci sono veri e propri lavori che girano intorno a questi. Molti content creator che ora lavorano esclusivamente con i social affermano che, se inizialmente riuscivano a conciliare il lavoro sui social con il lavoro esterno a questi, con l’aumentare dei doveri legati al primo e di conseguenza delle ore da dedicarvi, hanno dovuto abbandonare il secondo.
L’organizzazione mondiale del lavoro (ILO) definisce il lavoro minorile come una qualsiasi attività lavorativa che vieta lo studio e la libertà nella fase minorile, influendo negativamente sullo sviluppo psico-fisico del bambino.
Parlando di attività sui social, i ragazzini non si sottopongono sicuramente a uno sforzo fisico estenuante, ma di certo la loro attività influisce negativamente sul loro sviluppo psico-fisico. Come emerso da diverse ricerche, attenzione, concentrazione e comprensione sono alcune delle prime capacità che vengono disturbate da un utilizzo smisurato di questi dispositivi.
Più che una mamma-manager, una mamma-capo
L’età minima obbligatoria per poter utilizzare Instagram è di 13 anni. Si presume quindi che almeno in parte, siano i genitori a gestire gli account di questi bambini, così come le collaborazioni con i brand. Questo la dice lunga sulla consapevolezza del bambino rispetto alla sua condizione. Ne è l’esempio Aubrey Jade (@missaubreyjade). La fashion influencer statunitense ha solo 2 anni, ma colleziona già 239 mila follower su Instagram. Tuttavia non può essere effettivamente cosciente di ciò che sta facendo e della propria popolarità. Il social infatti è completamente gestito dalla madre, che quotidianamente la veste, la mette in posa, scatta e posta al posto suo, ottenendo il profitto che la bambina riscuote da ogni singola foto. Aubrey ci mette solo la faccia.
Bee Fisher, madre di 3 baby influencer, racconta alla rivista Wired:
Se ci sono giorni in cui non hanno voglia, non devono farlo… A meno che non si tratti di lavoro retribuito. In questo caso devono farlo. Abbiamo dei lecca-lecca per quei giorni.
Se i piccoli attori sono tutelati da contratti, i baby influencer “lavorando” in una realtà ancora piuttosto nuova mancano di qualsiasi protezione. Infatti da parte di Instagram, come di YouTube, manca una verifica effettiva dell’età dei propri utenti. Considerato questo, aggiunto alla pressione mediatica, alla precarietà della fama e a genitori oppressivi, ciò che viene da chiedersi è: Qual è il futuro di questi bambini?