In un contesto internazionale e interno profondamente cambiato, si rinnovano il Parlamento e il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese
A metà di gennaio sono state indette le elezioni dall’Autorità Nazionale Palestinese. Se dovessero effettivamente aver luogo si terrebbero a quindici anni dalle ultime: il 22 maggio le legislative e il 31 luglio le presidenziali. Sono molti i dubbiosi che ricordano i tanti annunci di elezioni fatti in passato e mai concretizzatisi, e non è detto che stavolta sia diverso.
Il mandato dell’attuale presidente in carica, Mahmoud Abbas Abu Mazen, sarebbe dovuto durare quattro anni, ma altre elezioni politiche dopo quelle del 2005 non si sono mai avute. Il loro congelamento è certo comprensibile se ripercorriamo gli eventi occorsi dopo le ultime. Il partito Al Fatah, di cui il Presidente Abbas è espressione, ne uscì sconfitto consegnando le redini del governo al partito islamico Hamas.
La guerra civile tra Fatah e Hamas
Gli Stati Uniti del repubblicano Bush junior, insieme con l’Europa, imposero sanzioni ai palestinesi per indurli a escludere la forza islamica dal governo. La consideravano – e tutt’ora la considerano – un’organizzazione terroristica. L’effetto fu di inasprire le già difficili relazioni tra i due maggiori partiti, Fatah e Hamas.
Così, nonostante le dimissioni del governo da poco in carica e la costituzione di uno di unità nazionale, l’inasprimento del conflitto civile sfociò nella violenza esplicita.
Seguì il blocco della Striscia di Gaza, per mare e per terra, dall’Egitto e da Israele, nonché la scissione politica tra la Striscia controllata da Hamas e la Cisgiordania in mano a Fatah. Lo stallo politico e l’isolamento dei due territori ha reso difficile nel tempo il rinnovamento della leadership.
Gli effetti dell’èra Trump
La presidenza Trump non è passata indolore sulla Palestina. Il piano di annessione proposto dall’ex presidente e fatto proprio dalla Knesset (il Parlamento israeliano) da tempo a maggioranza di destra, ha reso difficile il già congelato dialogo israelo-palestinese. La normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e alcuni Paesi arabi (Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco) ha reso ancora più manifesto l’isolamento dei palestinesi nelle relazioni internazionali e nella stessa Lega Araba.
La riconciliazione nazionale
Gli unici Stati che hanno continuato a manifestare una vicinanza tangibile sono la Turchia e i Paesi a forte componente sciita. Proprio Istanbul, più precisamente il consolato palestinese nella capitale turca, è stata la sede dei colloqui tra Al Fatah e Hamas che nel settembre scorso hanno portato finalmente all’accordo per le nuove elezioni. Entrambi i partiti avranno convenuto che un superamento delle divergenze interne fosse un passo necessario per uscire dall’isolamento internazionale.
Leadership in crisi
La riconciliazione si rende indispensabile per ridare credito alla dirigenza di entrambi i partiti e della stessa Organizzazione per la Liberazione della Palestina ormai in crisi. Un indice ne sono state le dimissioni dal Comitato Esecutivo dell’OLP – lo scorso dicembre – di Hanan Ashrawi.
Dalle indiscrezioni parrebbe che la Ashrawi non abbia condiviso la ripresa della cooperazione per la sicurezza con Israele, in un primo momento sospesa da Abbas come rappresaglia per l’approvazione del piano di annessione da parte della Knesset. La linea di Abbas viene considerata da molti troppo morbida.
Il nuovo scenario
L’avvicendamento alla Casa Bianca, sebbene sia un fattore di miglioramento, difficilmente potrà significare di per sé una vittoria della soluzione a due Stati come hanno sempre rivendicato i palestinesi. Tuttavia, è probabile che la dirigenza araba speri con le elezioni di fare una mossa vista con favore da Washington e dall’Europa.
La realtà di oggi è diversa da quella che nel 1993, con gli Accordi di Oslo tra Arafat e Rabin, diede vita alla stessa Autorità Nazionale Palestinese. Sarà molto difficile ripartire da lì. Due territori geograficamente distinti e coerenti per creare due Stati non esistono più, a causa della continua costruzione di nuove colonie israeliane in Cisgiordania.
Lo status di Gerusalemme
Ma lo scoglio forse più insormontabile è sempre stato lo status di Gerusalemme. Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU (ultima la 2334 del 2016) vogliono che la parte Est della città sia liberata dagli israeliani, che la occupano dal 1967.
La decisione di Trump di spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme, riconoscendola di fatto “capitale indivisa” dello Stato ebraico, ha messo in crisi la linea dell’ONU.
Tali questioni influiranno incidentalmente anche sulle elezioni: le autorità israeliane lasceranno votare i cittadini arabi di Gerusalemme Est e dei territori della Cisgiordania sotto controllo ebraico? Nel 2005 ciò si rese possibile con un complesso accordo che istituiva dei seggi appena fuori dalla Città Santa. Ma oggi il vento della destra e dei religiosi ortodossi spira più forte e lo Stato israeliano appare molto meno isolato che un tempo.
Lorenzo Palaia