Perché è necessario uno sguardo intersezionale su autismo e identità di genere? Gli stereotipi che circondano l’autismo sono tanti, ma ce n’è uno che ha arrecato più danni degli altri: l’idea che riguardasse solo il genere maschile.
Un nerd con gli occhiali, genio della matematica e con la passione dei treni, un giovane disinteressato alla società e con scarsa empatia. Il numero delle diagnosi confermava questo stereotipo: una bambina ogni 4,4 maschi diagnosticati.
Le bambine non identificate sono diventate ragazze senza il supporto di cui avrebbero avuto bisogno e poi, ormai adulte, hanno trovato le loro risposte. Alcune sono arrivate alla diagnosi dopo quella dei propri figli, altre a causa di profonde difficoltà di salute mentale, facendo innalzare rapidamente la percentuale delle diagnosi in età adulta.
Percorso simile per tutte quelle persone che non si riconoscevano nel genere assegnato, o che presentavano una variazione di genere più ampia, i cui sintomi venivano ignorati o attribuiti ad altre cause. Insomma, l’autismo è (anche) una questione di genere!
Autismo e identità di genere femminile
Il femminile ha fatto parte della storia dell’autismo sin dai suoi inizi, anche se spesso bistrattato e dimenticato. In principio fu Grunya Sukhareva, neuropsichiatra sovietica, a descriverne i tratti ben venti anni prima dei suoi colleghi Leo Kanner e Hans Asperger, che ne ignorarono gli studi e presero per sé ogni merito.
Leo Kanner, da parte sua, propose la vergognosa teoria della madre frigorifero: i bambini crescevano autistici a causa di una madre troppo fredda e incapace di amarli. Gli ci vollero quasi trent’anni per rinnegare la teoria. Nel frattempo migliaia di madri incolpevoli erano state colpevolizzate e la comprensione dell’autismo arenata su credenze sbagliate. Oggi, che se ne conosce l’origine genetica, si pensa che quelle madri fossero autistiche a loro volta e mostrassero le proprie emozioni in una maniera incomprensibile all’occhio pregiudizievole e non autistico dei clinici.
Gli strumenti diagnostici derivati da quelle prime osservazioni sui bambini maschi, sulle loro caratteristiche e sui loro interessi, si rivelano spesso insufficienti per individuare il profilo femminile autistico. Ad esempio, tra le domande presenti in uno dei test di screening si fa riferimento ai treni (stereotipo duro a morire che vede i piccoli autistici sempre e solo ossessionati dai vagoni), ma tra le caratteristiche primarie delle persone autistiche c’è il prendere tutto alla lettera.
Pertanto, per una persona di genere femminile disinteressata ai treni, risulta difficile adattare la domanda sostituendo i treni con le bambole, o con gli animali, o con i romanzi, o con qualunque altro interesse le assorba intensamente. Inoltre, il genere femminile viene socializzato in maniera diversa da quello maschile e caratteristiche come la solitudine o il parlare poco vengono considerate normali e non degne di indagine. Molto spesso arrivate all’adolescenza le ragazze autistiche ricevono una diagnosi psichiatrica, vengono medicate inutilmente e vedono peggiorare la propria situazione senza capirne il perché.
Nel 2020 è stato finalmente pubblicato e validato un test basato sul genere femminile che si aggiunge agli strumenti già in uso per le diagnosi. I suoi ideatori sono Michelle Garnett e Tony Attwood, tra i massimi esperti internazionali del tema. Grazie agli studi più recenti le bambine di oggi possono auspicare per se stesse una sorte diversa da quella di chi le ha precedute.
Persone autistiche LGBTQIA+
Ormai sappiamo che non è solo l’autismo a disporsi su uno spettro di variazioni possibili, ma anche il genere e il sesso. Ed è proprio quando i due spettri si incontrano che le cose si complicano. Se le donne autistiche hanno impiegato decenni per essere riconosciute, immaginate la fatica per le persone autistiche e trans, non binarie o intersex.
Sono molti gli studi internazionali che hanno investigato autismo e identità di genere e i dati ci dicono che l’intersezione dei due spettri è tutt’altro che un’eccezione: è 4 volte più probabile per una persona autistica esprimere variazioni di genere rispetto ad una non autistica e fino al 26% di chi si rivolge alle cliniche di riaffermazione del genere ha, o potrebbe avere, una diagnosi di neurodivergenza.
Le persone trans sono tra le più discriminate nelle comunità che abitano, se a questa discriminazione si aggiunge quella subita a causa delle proprie caratteristiche divergenti il mix diventa potenzialmente letale: entrambi i gruppi presentano tassi di suicidio molto superiori alla norma.
Il rischio per un individuo autistico che esprime dubbi sul genere assegnato è quello di non essere creduto, o di veder ricondotti all’autismo tutti i suoi malesseri, o di essere ritenuto incapace di poter decidere per sé. Nel migliore dei casi può ricevere supporto per una delle due condizioni vedendo l’altra completamente ignorata.
Inoltre, anche per quanto riguarda la sessualità si dispongono, più frequentemente dei propri pari non autistici, su un ampio spettro di variazioni che vanno dall’asessualità al poliamore. Fino al 35% di persone autistiche senza disabilità intellettive si riconosce in una delle identità racchiuse nell’acronimo LGBTQIA+ e questo le pone a rischio di subire discriminazioni multiple e complesse.
Secondo gli esperti questa variazione di possibilità dipende dallo scarso interesse delle persone autistiche ad aderire a rigide norme sociali. Il minore stimolo interno al far parte di un gruppo e al conformarsi permette loro di indagare più liberamente il proprio io e, con il giusto sopporto, di vivere secondo le proprie regole e fedeli a se stessi.
Affinché questo avvenga, le persone hanno bisogno di veder riconosciute le proprie identità molteplici, per questo è importante anche nell’autismo avere uno sguardo intersezionale che permetta di capire quanto le caratteristiche personali, quelle dovute al funzionamento autistico e le identità di genere si sommino dando origine a profili profondamente diversi l’uno dall’altro, con sfide e punti di forza unici.
Nei paesi anglosassoni questo è un punto diventato ormai assiomatico. Il dibattito sull’autismo è molto avanzato anche grazie ad una comunità forte e numerosa di adulti autistici e genitori alleati. In Italia siamo ancora ad una fase iniziale, ma qualcosa pare muoversi.
Il Gruppo Empathie: uno sguardo intersezionale tra autismo e identità di genere
Empathie è stato il primo centro multidisciplinare in Italia a specializzarsi nella diagnosi e supporto delle bambine, ragazze e donne autistiche e neurodivergenti senza disabilità intellettive. Offre un approccio clinico rigorosamente scientifico ma non patologizzante, in linea con gli studi più recenti e con le rivendicazioni delle associazioni internazionali di advocacy.
Da quest’anno il centro ha attivato nella propria sede di Vigonza (Padova) il servizio Double Rainbow per il supporto di adolescenti e adulti che si trovano all’intersezione tra neurodivergenza e varianza di genere. Persone che per questo si trovano ad affrontare problematiche complesse come il bullismo, la presenza di barriere d’accesso a cure sanitarie e di supporto sociale, l’educazione sessuale e affettiva che non tiene conto delle loro specificità.
Il servizio sarà di immenso aiuto per tutte quelle persone che hanno visto parti della propria identità rifiutate e rese invisibili da istituzioni inadatte ad accoglierle, con la speranza che possa portare cambiamenti positivi anche nella società generale grazie all’unione tra le conoscenze scientifiche aggiornate e la convinzione che la diversità sia una ricchezza.
Sara Pierri