C’è solo un anno di distanza fra la morte di Jane Austen (1775-1817) e la nascita di Emily Brontë (1818-1848). Neanche a farlo apposta. Come se si fossero passate il testimone. Entrambe grandi nomi della letteratura inglese, scrittrici in epoche in cui alle donne intellettuali (come direbbe Virgina Woolf) mancava “una stanza tutta per sé”. Figlie di ecclesiastici, trascorsero l’esistenza in piccoli mondi di campagna. Da lì, la loro penna conquistò il mondo e il tempo. Forse, gli spiriti veramente grandi non hanno bisogno di spazi grandi, per brillare.
Un’altra cosa avevano in comune: il loro essere “fuori dalla propria epoca”. La Austen non amava il romanzo gotico a lei contemporaneo e la Brontë si discostò dalla tipica letteratura vittoriana, massificata e moralizzante. Ma questo essere “indietro” era il segno della loro originalità. Protagonista dei loro romanzi è la sfera degli affetti, una delle poche a cui le donne avessero possibilità di attingere per l’ispirazione. Qui, però, sembrerebbero finire le somiglianze.
Si pensi, per esempio, a Orgoglio e pregiudizio (1813) della Austen. Un piccolo gioiello di raziocinio e umorismo. La penna della Austen è un bisturi che incide quasi senza parere. È evidente fin dall’incipit: “È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo largamente provvisto di beni di fortuna debba sentire il bisogno di ammogliarsi.” (Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio, Milano 2008, Mondadori, p. 3. Trad. di Giulio Caprin). Abbiamo già il ritratto di una società intera. E il sorriso dell’autrice, in sottofondo, è perfido – ma impeccabile.
Tutt’altro mondo è quello di Cime tempestose (1847). Arrivare impreparati alla sua lettura può indurre crisi di rigetto. Anche qui, abbiamo un mondo di rispettabili dimore campagnole, con famiglie che allacciano legami matrimoniali incrociati. Ma non c’è niente del comfort e dell’affabilità che circola nelle sale della Austen. La magione che dà il titolo al romanzo è inquietante e scomoda, come l’animo di chi la abita. Il paesaggio è selvatico e ostile. Bussare alla porta di “Cime tempestose” significa misurarsi con la Natura – anche quella che ruggisce in fondo all’anima dell’uomo.
Al contrario di Orgoglio e pregiudizio, che è romanzo d’amore e di costume, Cime tempestose è difficilmente classificabile. È gotico? Vi sono storie di fantasmi, al suo interno. Ma offre anche descrizioni delle campagne dello Yorkshire. Heathcliff (il protagonista maschile) sembrerebbe piuttosto caratteristico: “Tipi simili, potete vederne su queste colline entro un raggio di cinque o sei miglia, se cogliete il momento giusto dopo il pranzo; ve li trovate seduti nelle loro sedie a braccioli innanzi a boccali di birra spumeggianti posati su tavole rotonde.” (Emily Brontë, Cime tempestose, Torino 1992, Einaudi, p. 6. Trad. di Antonio Meo). Eppure, già il suo aspetto elude le aspettative che annuncerebbero un romanzo realistico. Ha un’aria zingaresca, burbera, di chi chiude in sé un passato randagio e misterioso. Una dopo l’altra, le previsioni del lettore cadono, per lasciare il posto a una vicenda assai più intricata…
È quello che accade al signor Lockwood: l’affittuario di Heathcliff, nonché il personaggio al cui diario l’autrice affida la narrazione. Al contrario della Austen, la Brontë ha bisogno dell’escamotage della “testimonianza”, per dare una parvenza di credibilità a una storia singolare come quella di Heathcliff. Al diario di Lockwood, si affianca un altro filtro: la voce della governante Nelly, colei che racconta la storia degli spiriti inquieti di “Cime tempestose”. Alla luce di un focolare, le vicende di fantasmi possono sembrare meno esagerate; le tempera la quotidianità dell’atmosfera familiare. Del resto, la domestica che racconta storie spaventose è un elemento realistico, tratto dalla vita dell’autrice. Al lettore pedante, si potrà scusare la straordinarietà della trama col classico: “Sono chiacchiere di comari”.
E l’amore? Un famosissimo monologo di Catherine Earnshaw, la protagonista femminile, sembrerebbe programmatico, in questo senso: “Il mio amore per Linton è come il fogliame nei boschi: il tempo lo muterà, lo sento bene, come l’inverno cambia le chiome degli alberi. Il mio amore per Heathcliff rassomiglia alle rocce eterne sotto terra: una sorgente che dà poca gioia visibile, ma necessaria.” (Emily Brontë, op. cit., p. 93).
Nel mondo della Austen, l’obiettivo esistenziale delle protagoniste è il matrimonio con un giovane piacente e benestante, che garantisca una vita senza scosse: buonsenso e benessere, insomma, anche se ciò non deve escludere l’affettività. Ma proprio questa scelta di vita è ciò che precipita nel tormento le anime di Heathcliff e Catherine: frutto di uno spaventoso egoismo, distrugge le esistenze dei personaggi per generazioni. Maturare, per la Brontë, significa scoprire la natura mistica dell’amore, non codificabile all’interno del matrimonio e dei legami familiari.
Qual è il vero amore? Quello della Austen, più realistico nelle aspettative? O quello della Brontë, inevitabile e implacabile come la Natura? Difficile dirlo. Entrambe hanno giocato di fantasia con la propria esperienza. Anche le vicende della Austen sono spesso ipotesi (“quello che l’amore dovrebbe/potrebbe essere”), mentre l’ “immaginazione” della Brontë coglie una verità scomoda: il proverbiale “al cuor non si comanda”. Ragione e sentimento sono entrambi due parti irrinunciabili della psiche umana, per quanto non ugualmente sviluppati in ciascuno. Preferiamo concludere così: la fiction è fiction. Va presa per quel che è: qualcosa che non ha volto reale, ma che può rifletterne molti. Come uno specchio.
Erica Gazzoldi