Di Tiziana Barillà
È donna, è Premio Nobel per la Pace, è stata eletta democraticamente. ed è accusata di genocidio.
Il Myanmar torna sulle pagine e gli schermi di mezzo mondo, dopo il colpo di Stato militare del primo febbraio. Per arrestare i principali leader della maggioranza, il generale Min Aung Hlaing – capo delle forze armate e adesso anche capo del governo – ha scelto il giorno in cui la maggioranza avrebbe dovuto insediarsi in Parlamento. Così, Aung San Suu Kyi non ha fatto in tempo a gustarsi la vittoria ottenuta lo scorso novembre. Una vittoria senz’altro schiacciante per la sua Lega nazionale per la democrazia: 368 seggi su 434, il partito dei miliari invece (Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione) ha ottenuto solo 24 seggi.
L’esercito birmano è tornato saldamente al potere, si direbbe. Ma se ne era mai andato?
La transizione democratica in Myanmar, in realtà, non è mai avvenuta. L’esercito ha continuato a mantenere il potere nelle sue mani: la Costituzione (da loro scritta) assegna ai militari un quarto di Parlamento e il controllo di ministeri come Sicurezza, Difesa e Interni e cioè: polizia, intelligence e frontiere. Non solo. Gli alti gradi militari controllano la Myanmar Economic Holdings Limited e la Myanmar Economic Corporation. E possiedono centinaia di imprese, dall’edilizia al turismo.
Aung San Suu Kyi ci è stata a lungo raccontata come emblema della vittoria della democrazia sulla barbarie militare. Nel 2015 la sua vittoria alle prime elezioni “libere” in Myanmar aveva posto fine a più di mezzo secolo di dittatura militare e l’Occidente non esitò a incoronarla paladina della democrazia. Nemmeno un anno dopo quella vittoria, l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, la riceveva alla Casa Bianca consacrando – testuali parole – «la trasformazione politica e sociale in atto» e annunciando tutte le conseguenze del caso (come la decisione di riprendere i rapporti commerciali con il Myanmar).
Pur non essendo profondi conoscitori del sudest asiatico, né esperti biografi di Aung San Suu Kyi, questa vicenda è l’occasione per esaminare la vicenda per quella che è: un prodotto della “fabbrica dei miti”, a uso e consumo degli occidentali, che ci permette di sospirare e metterci in pace la coscienza, raccontandoci una storia di «trasformazione» che di fatto resta solo sulle pagine dei nostri giornali e sulle nostre home page.
I suoi silenzi assordanti sulle violenze e gli abusi contro la minoranza musulmana Rohingya avrebbero dovuto già metterci in guardia sulla tenuta della sua fede democratica. Il Myanmar è un Paese a maggioranza buddista che, dal 1982, nega cittadinanza, libertà di movimento e altri diritti fondamentali ai Rohingya, “colpevoli” di provenire dal Bangladesh. Fino alla campagna militare del 2017 nello Stato di Rakhine, che ha costretto 700mila persone a fuggire in Bangladesh: villaggi rasi al suolo e dati alle fiamme, migliaia di morti e stupri sistematici. E per questo, nel 2019, Aung San Suu Kyi è comparsa davanti alla Corte penale internazionale all’Aja con l’accusa di genocidio contro la minoranza musulmana. Quella che in Occidente ci raccontiamo come un’icona della democrazia, simbolo della resistenza pacifica contro l’oppressione, davanti ai giudici ha così difeso l’esercito:
«Non si può escludere che i militari abbiano usato una forza sproporzionata. Ma il genocidio non è l’unica ipotesi».
No, non occorre essere profondi conoscitori del Sud Est asiatico, né esperti biografi di Aung San Suu Kyi. Questa vicenda è davvero l’occasione per riflettere su come dietro le più o meno pompose cerimonie di cambiamento e progresso, spesso, si celi l’immutevole ipocrisia del potere. È andata così, anche stavolta.
Creare miti non basta. Neanche se il mito è una donna, che ha affrontato coraggiosamente la dittatura militare e scontato anni di prigione. La “fabbrica dei miti” si è rivelata, anche stavolta, un bluff.