Aumenta la repressione dei militari in Myanmar

militari in Myanmar

Michele Marsonet Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane Ultima Voce

– di Michele Marsonet –

Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane


La resistenza popolare alla spietata repressione messa in atto dalla giunta militare golpista birmana sta crescendo. Lo rivela David Gum Awng, viceministro per la cooperazione internazionale del governo di unità nazionale del Myanmar (Nug) che si oppone ai militari, giunto a Roma per una serie di colloqui con funzionari del nostro ministero degli Esteri.

A dispetto della summenzionata repressione, l’esercito fatica sempre più a controllare il Paese e ha perduto ampie porzioni di territorio a favore dei militanti del governo di unità nazionale e delle numerose formazioni etniche armate che, superando antiche divisioni, ora fanno fronte comune contro l’esercito golpista, il “Tatmadaw”.

Quest’ultimo, nominalmente “socialista”, è in realtà espressione di un nazionalismo estremo, in nome del quale le frontiere restano rigidamente chiuse. Viene inoltre privilegiata l’etnia birmana maggioritaria a scapito delle numerose minoranze etniche, alcune delle quali vorrebbero l’autonomia amministrativa nell’ambito di uno Stato federale, mentre altre puntano a una vera e propria indipendenza.

Nel frattempo aumentano le perdite tra i soldati dell’esercito e – novità significativa – sono aumentate pure le defezioni di militari passati ai ribelli. Secondo David Gum Awng, le forze militari del governo di unità nazionale oggi controllano circa metà del Paese. Non vi sono riscontri oggettivi, ma gli osservatori internazionali hanno da tempo notato una diminuzione del controllo da parte dell’esercito regolare.

Tutto questo si spiega con l’appoggio sempre più convinto della popolazione alla ribellione, e il progressivo scivolamento verso una situazione di guerra civile. Purtroppo i generali golpisti possono contare sull’appoggio pressoché totale, tanto sul piano politico quanto su quello militare, della Repubblica Popolare Cinese, che nel 2021 favorì il golpe che riportò al potere l’esercito nel Myanmar.


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Pechino ha svolto un ruolo molto attivo, aiutando la giunta militare a reprimere le dimostrazioni di piazza dopo la vittoria elettorale legittima della “Lega nazionale per la democrazia”, il partito della Premio Nobel per la Pace, la 78enne Aung San Suu Kyi. Quest’ultima è stata poi incarcerata per l’ennesima volta.

Molti analisti internazionali accusano la Cina di praticare una politica predatoria nel “Paese delle Mille pagode” per motivi prettamente economici e commerciali. Il Myanmar è infatti ricchissimo di materie prime, e soprattutto delle cosiddette “terre rare” da cui provengono i minerali indispensabili per la costruzione degli apparati elettronici.

Il capo della giunta militare golpista, il generale Min Aung Hlaing, ha in pratica concesso carta bianca ai cinesi affinché procedano all’estrazione dei suddetti minerali. Tale estrazione ha però un alto costo ambientale, del quale né i militari né i cinesi che li appoggiano si curano molto.

I problemi ecologici della Cina vengono dunque risolti trasferendo le attività inquinanti nel Myanmar. Paese peraltro molto povero, nel quale l’epidemia di Covid 19 ha fatto crollare l’industria turistica, una delle fonti principali di entrate economiche. Con tale strategia Pechino distoglie l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale dai suoi problemi ambientali, contando sul fatto che tale attenzione è molto meno viva per quanto riguarda il Myanmar. Si tratta ora di vedere se l’appoggio cinese sarà sufficiente per consentire all’esercito golpista di mantenere il potere.

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