Ancora bombardamenti su un territorio che non trova pace: un altro attacco ai danni della popolazione curda del Rojava
Qualche chiarimento: il Rojava
Attacchi per certi versi non inattesi quelli che ieri mattina sono avvenuti sul territorio curdo-siriano, vicino al confine con la Turchia. Ieri mattina alle ore 9.30 (ora locale) sono state bombardate alcune città della regione autonoma del Rojava, nel nord-est della Siria.L’operazione ha avuto il benestare dal governo turco, al cui capo si trova Recep Tayyip Erdoğan, che da anni mina l’esistenza di questo territorio. La regione si trova de facto su territorio siriano, ma in seguito alla guerra civile del 2012, l’area è in mano alla minoranza curda, già abitante del Paese.
L’indipendenza della regione è stata conquistata a seguito dallo scoppio delle rivolte del 2011, nel macro-ambito della “primavera araba”. La minoranza abitante dello stato siriano, infatti, prese le parti dei “ribelli”, andando a schierarsi con chi voleva la fine del regime di Bashara al-Assad. La rivolta iniziò con manifestazioni non-armate, volte ad ottenere riforme, ad esempio, in campo politico con lo smantellamento del regime autoritario e monopartitico del Partito Ba’th.
La rivolta si radicalizzò sempre di più anche sul piano religioso: da una parte al-Assad, sciita, mentre il fronte dei ribelli era principalmente sunnita. Gli scontri si ampliano e alla guerra civile si aggiunse anche il gruppo islamico-fondamentalista dell’ISIS (di stampo salafita, quindi sunnita), in opposizione al governo siriano. L’obiettivo del gruppo non era chiaramente in supporto ai ribelli, ma al contrario puntavano all’instaurazione della Shari’a, la Legge di Dio indicata nel Corano.
È nell’ambito dello scontro con lo Stato Islamico che entra maggiormente in scena il fronte curdo. Organizzato nelle milizie dello YPG e YPJ, dal 13 settembre 2014 al 15 marzo 2015 si battono contro le forze dell’ISIS, respingendoli al di fuori del cantone di Kobanê.
L’attacco su Kobanê
Nonostante non sia stata l’unica città colpita, Kobanê è sicuramente la più rappresentativa del percorso di emancipazione del popolo curdo. Gli attacchi turchi hanno qui distrutto l’ospedale, una centrale elettrica e un deposito di cereali. È stata raggiunta anche la collina di Mishentur, luogo che ha cambiato le sorti dello scontro con lo Stato islamico. Tra i tanti avvenimenti si ricorda infatti quello della combattente curda Arin Mirkan. Su questa collina, in un momento critico della lotta in cui l’avanzata dell’ISIS si faceva sempre più incalzante, si sacrificò per la difesa della città. Arin riuscì ad entrare in una roccaforte islamica e rimase uccisa a seguito di una granata da lei lanciata sotto un carro armato dei nemici.
Insieme a quelli su Kobanê si contano attacchi dei turchi anche su Tel Abyad (già colpita durante l’invasione turca del 2019) e Shengal (occupata dall’ISIS nel 2014). Un’altra città coinvolta è Mahabad, nel Kurdistan iraniano, a pochi chilometri da Saqquez, città natale di Mahsa Amini).
Al momento risultano 11 morti, tra cui un giornalista, e 6 feriti, tra cui un giornalista.
La contro-parte turca, con oggi, ha messo in atto quella che definisce operazione “Winter Eagle”. Secondo il governo turco, infatti, il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) è un’organizzazione terroristica da fermare con ogni mezzo. Il partito, fondato nel 1999, punta ad adottare e promuovere l’organizzazione politica del confederalismo democratico, patrocinato da Abdullah Öcalan. I tre punti cardini sono: ecologia, parità di genere e convivenza pacifica tra popoli secondo l’assetto dell’auto-governo. La Turchia, e di conseguenza tutti i paesi europei, accusano il partito di terrorismo, a partire dai metodi di lotta scelti.
L’obiettivo dei turchi è quindi chiaro: con questi attacchi Erdogan vuole colpire i civili, nascondendosi dietro la giustificazione dello smantellamento di cellule terroristiche.
Un bombardamento che puzza di ripicca
Dal 2014, anno in cui il Rojava ha via via ottenuto il riconoscimento – almeno ufficioso – come regione autonoma, gli attacchi turchi non si sono mai arrestati. Erdogan e il governo a lui precedente hanno applicato varie metodologie: dall’espulsione dei membri del partito dalle università alla creazione di corridoi per l’entrata delle milizie dell’ISIS nei vari cantoni. A tutto questo, si aggiungano le costanti occupazioni turche su territorio curdo. Cercando quindi una motivazione per l’attacco aereo su Kobanê, la risposta a lungo termine sta nell’impegno costante del governo turco di eliminare questa realtà politica e sociale.
Se invece dovessimo trovare una risposta a breve termine, una giustificazione immediata ai bombardamenti di ieri, questa si potrebbe facilmente individuare nello spirito vendicativo in seguito all’attentato del 13 novembre 2022. Quando Ahlam Albashir, donna siriana accusata dell’esplosione avvenuta nella via principale di Istanbul, è stata arrestata, le accuse sono state lanciate immediatamente contro i curdi. Secondo la polizia turca infatti, la donna sarebbe stata addestrata nel Paese per essere “mandata in missione” in Turchia. Accuse che hanno tenuto banco nonostante le dichiarazioni del PKK e di Albashir stessa. Il Partito ha infatti smentito qualunque legame con la donna, asserendo che i suoi attacchi non coinvolgono mai civili. Dall’altra parte Albashir ha negato di essere parte delle forze curde.
L’attacco su Kobanê non sarà sicuramente l’ultimo tra quelli che la Turchia riserverà al Rojava. Nei quasi 10 anni da Presidente del Paese, Erdogan non ha mai perso occasione per minare l’esistenza di un popolo che si batte per la libertà e per i principi democratici. Sia tramite espliciti attacchi militari o con prese di posizione diplomatiche. In questo senso si ricordo il “ricatto” contro Finlandia e Svezia per l’entrata nell’UE. L’unico modo per togliere il veto della Turchia era infatti quello di consegnare 33 membri del PKK.