“Just do it”, fallo e basta, sogna in grande, fatti credere pazza: sono questi gli slogan di Nike, l’azienda leader mondiale che si professa paladina della parità di genere. Le retoriche utilizzate dall’azienda nelle campagne pubblicitarie, sono però parte della loro politica interna?
Qual è il trattamento che ricevono le atlete Nike? Negli ultimi giorni Alysia Montaño ha raccontato al mondo la sua storia. Una storia di sacrifici e discriminazione che merita di essere ascoltata.
Alysia è stata la migliore mezzofondista degli Stati Uniti fino a pochi anni fa. Due gravidanze vissute sulle piste di atletica, come nel 2014, anno in cui gareggiò col pancione di otto mesi. Cosa porta le atlete a gestire in questo modo un momento così particolare della vita?
La risposta è semplice, il comitato olimpico degli USA garantisce la completa copertura sanitaria solo agli atleti che riescono a piazzarsi ai primi posti nelle gare di qualificazione nazionale. Questo rappresenta un enorme scoglio per una donna incinta; molte atlete si ritrovano a dover scegliere tra la maternità e l’assicurazione sanitaria.
Per chi gareggia in atletica non è previsto un salario adeguato e l’unica vera fonte di reddito è rappresentata dai contratti con gli sponsor. Cosa succede se il leader mondiale, a cui le altre aziende si ispirano, non rispetta la maternità delle sue atlete?
La posizione di Nike
Quando Alysia Montaño ha comunicato ai manager dell’azienda che avrebbe voluto un bambino, l’unica risposta che ha ottenuto è stata “dobbiamo bloccare il tuo contratto”. Nessun compenso, nessun congedo di maternità per le atlete Nike.
La multinazionale ha ammesso di aver tagliato i compensi di atlete in stato interessante, ma ha dichiarato di aver cambiato questa politica dal 2018. La verità è che nei contratti delle atlete Nike è ancora presente la clausola secondo cui l’azienda può ridurre la loro retribuzione per qualsiasi motivo.
Sono molte le atlete mamme che stanno facendo sentire la propria voce negli ultimi giorni. Dichiarano che il sistema spinge gli uomini ad avere una carriera atletica perfetta e le donne a fallire miseramente, se decidono di crearsi una famiglia.
Che Nike non sposasse le sue pubblicità nel mondo reale lo avevamo capito già nel 2000. Scoppiò lo scandalo sul lavoro massacrante dei suoi operai in Cambogia e l’azienda decise di risolvere chiudendo le fabbriche e abbandonando mezza nazione alla fame.
Le campagne pubblicitarie sono solo una facciata
Il riscatto, la sfida, il gesto folle sono tutte retoriche che Nike esprime nelle campagne pubblicitarie. Dovrebbe però ricordare che i messaggi di progresso sociale sono importanti solo se rappresentano davvero l’azienda. Usare una comunicazione mirata alla parità di genere per dimostrare di essere cambiati non serve, se la si usa solo per vendere e per ripararsi dalle pressioni delle consumatrici.
La multinazionale Nike dovrebbe smettere di trattare la gravidanza come un infortunio, dare il proprio contributo per cancellare la discriminazione contro le donne usando la propria voce, ma soprattutto i fatti.
Angelika Castagna