Astutillo Malgioglio, ex portiere con una decennale carriera tra serie A e B, è stato premiato dal Presidente Mattarella “per il suo costante e coraggioso impegno a favore dell’assistenza e dell’integrazione dei bambini affetti da distrofia”. Un premio meritato per quello che era un buon giocatore sul rettangolo verde ed un campione fuori dal campo.
Per me Astutillo Malgioglio era una figurina. Un volto simpatico, due baffi curati. Occhi sorridenti, maglia dell’Inter con il vecchio stemma del biscione e lo sponsor “Misura”, sfondo verde del prato del campo di allenamento. Era un calcio diverso, in un mondo diverso. Le immagini dai campi le vedevi a 90° Minuto; brevi sintesi in cui difficilmente trovava spazio il portiere di riserva. Negli anni in cui iniziai a tifare, poi, tra i pali dell’Inter trapattoniana c’era un certo Walter Zenga. Astutillo era il secondo, scese in campo qualche volta: troppo poche perché ne possa avere un ricordo diverso da quello dell’immagine sull’album Panini.
Astutillo Malgioglio, “uomo spogliatoio”
Eppure ricordo che di Astutillo Malgioglio ne sentivo parlare. “Uomo spogliatoio” si diceva di lui, “impegnato nel sociale”. All’Inter lo aveva voluto proprio Giovanni Trapattoni, all’epoca uno dei tecnici più vincenti; se gli chiedevano di Astutillo, rispondeva che era uno dei giocatori più importanti della rosa. In una squadra da scudetto che schierava gente come Matthaus e Klinsmann, Zenga e Bergomi; lui, il portiere di riserva, era uno dei giocatori più importanti.
(Un servizio di Tele+ del 1998)
Con Trapattoni il rapporto era speciale. “Trap mi diceva che gli ero indispensabile, ma ero io che non potevo fare a meno di lui. Ci scambiavamo degli sguardi, bastava per intendersi e trasmettersi umanità. Aveva creato un grande ambiente nello spogliatoio, tirato fuori il meglio del lato tecnico e soprattutto umano. I miei compagni erano brave persone”. Con Ferri, lo stopper di quell’Inter dei record, si sentono ancora.
Anche con Klinsmann aveva un rapporto speciale. Il campione tedesco lo seguì un giorno dopo l’allenamento. Astutillo faceva la spola tra Appiano Gentile e Piacenza, dove aveva aperto con la moglie una palestra per la rieducazione dei ragazzi disabili. Avevano acquistato i macchinari e offrivano terapie gratuite ai bambini disabili. “Li aiutavamo a camminare, a muoversi da soli”. La palestra si chiamava ERA77, dalle iniziali della figlia – nata nel 77 – della moglie e sua. Quel pomeriggio, piombando lì direttamente dal mondo dorato della serie A, Klinsmann rimase colpito e decise di dargli una mano. “Quell’incontro gli ha cambiato la vita, sono contento per lui: è diventato qualcosa di più grazie a quell’esperienza”.
Gli inizi a Brescia…
Ma nel calcio la vita di Astutillo Malgioglio non è sempre stata facile. Era un ottimo portiere, convocato anche da Azeglio Vicini per fare il secondo di Giovanni Galli agli Europei U-20 del 1980. Aveva appena vinto da titolare il campionato di serie B con la maglia del Brescia e si apprestava a giocare la sua prima stagione da titolare in serie A. Fu un annata sfortunata per le Rondinelle, che si concluse con la retrocessione. Ma i problemi per il portiere arrivarono l’anno successivo, con il nuovo allenatore, Marino Perani. “Pensi più a quelli che a parare” gli disse. E Malgioglio perse il posto da titolare.
Già, perché nel mondo autoreferenziale del calcio, il bravo calciatore deve pensare solo ad allenarsi e a giocare. Un mondo astratto, nel quale i drammi della vita sono quelli della domenica. Una sconfitta, un gol subito, un tiro sbagliato. E fuori dal campo: soldi, lusso, relax. Certo: non è sempre così, né tutto così. Lo stesso Astutillo racconta di compagni e ambienti che gli hanno dato molto. Ma certamente uno come lui era un po’ un alieno in quell’ambiente, ancor più in anni in cui la disabilità era ancora vista con paura o distacco o disinteresse, se non peggio.
Malgioglio invece era rimasto colpito, alcuni anni prima, dalla visita in un centro per ragazzi con lesioni cerebrali. Furono alcuni suoi amici a portarlo lì e da quel momento la sua vita è cambiata. “Mi impressionò la loro emarginazione, – ha raccontato a Il Fatto Quotidiano – l’abbandono, il menefreghismo della gente. Fu un’emozione fortissima, un pugno nello stomaco. I miei genitori si sono sempre impegnati nel sociale e mi avevano già insegnato il rispetto e la solidarietà verso gli altri, ma quel giorno tutto mi apparve chiaro”.
…e gli anni alla Roma
Dopo Brescia vennero gli anni della Roma, neo campione d’Italia. Quelli in giallorosso sono anni di cui Astutillo Malgioglio ha buoni ricordi. Ricorda con affetto particolare il capitano Di Bartolomei: aveva un cuore buono, dice Astutillo. Era il secondo di Tancredi e giocò poco in quella Roma che arrivò in finale di Coppa Campioni. In compenso però la società e il mister Liedholm – ed Eriksson dopo di lui – gli facevano usare la palestra del centro di allenamento di Trigoria per aiutare i suoi ragazzi. Forse pensava che le cose sarebbero andate allo stesso modo la stagione successiva, ma con qualche presenza in più, quando accettò di scendere in B per giocare titolare. Senza cambiare città. Ma alla Lazio visse invece il momento più difficile della sua carriera.
Alla Lazio il momento più difficile
Era il 9 marzo 1986 e quel pomeriggio la Lanerossi Vicenza espugnò l’Olimpico, battendo il biancocelesti per 4 a 3. Non una grande prestazione per Malgioglio – al quale era anche mancato il padre la settimana precedente – ma può capitare a tutti, no? Quel giorno però la contestazione degli ultras nei suoi confronti toccò il culmine. Non gli perdonavano il suo passato alla Roma e nemmeno il suo impegno nel sociale. Gli avevano già sfasciato la macchina a Tor di Quinto. La moglie veniva insultata per strada. I figli maltrattati a scuola. A lui sputarono in faccia. Anche quando la Lazio vinceva gli urlavano “venduto”, “bastardo giallorosso”, “mongoloide”.
Quel pomeriggio una salva di fischi sottolineava ogni suo intervento. A un certo punto sugli spalti apparve anche uno striscione che recitava: “tornatene dai tuoi mostri”. Astutillo Malgioglio – nemmeno un giallo in carriera prima di arrivare alla Lazio – non ce la fece più. Si tolse la maglia, ci sputò, e la gettò in curva.
Dopo quell’episodio la società lo multò, ne chiese il radiamento alla federazione, lo licenziò. La sua carriera poteva dirsi virtualmente chiusa. Eppure non era quella la sua preoccupazione. Il dispiacere peggiore era per quel “mostri”, per gli insulti rivolti ai suoi ragazzi solo per attaccare lui.
Quello che mi ferì di più, non furono le cattiverie nei miei confronti ma la totale mancanza di rispetto, di solidarietà, di pietà per quei bambini sfortunati che non c’entravano niente. “Mostri”, così li hanno chiamati. Il giorno dopo a Piacenza ho visto i genitori di quei bambini, che mi guardavano negli occhi. Non sapevo cosa dire. Mi sono vergognato per quei tifosi. Molti di quei bambini oggi non ci sono più.
Fine della storia?
L’epilogo sembra scritto. La morale terrificante. Astutillo Malgioglio è stato, fino a quel pomeriggio, ciò che si definisce un “professionista esemplare”. Non ha mai saltato un allenamento. Il suo impegno nel sociale non ha tolto nulla a quello del professionista. Eppure in certi casi la sua vita e il suo impegno lo hanno penalizzato. Ma il mondo del calcio è fatto così: pretende una dedizione totalizzante. Forse teme che al suo interno possano crearsi crepe? Forse il timore è quello che gli altri calciatori si sentano frivoli, di fronte a un compagno che ha scelto una vita diversa?
Quello che ha vissuto Malgioglio sembra dire che la sensibilità, la scelta di vivere una vita diretta, vera, fuori dalla “gabbia dorata” del successo, sia uno svantaggio nella carriera di un calciatore. Ogni cosa che non sia calcio viene etichettata come una distrazione. Diventa la scusa per accuse e insulti. Prodigarsi per gli altri crea un corto circuito con la realtà distorta del mondo del calcio. Un tradimento per il dio del pallone. Che Astutillo Malgioglio ha pagato sulla sua pelle, nonostante sulla sua strada abbia incontrato anche persone di cuore e situazioni accoglienti.
Quel pomeriggio di marzo il conflitto pare definitivamente deflagrato e sulla strada del portiere sembrano esserci solo ostacoli. Messo di fronte al bivio tra quello che definisce “un mondo folle” e i suoi ragazzi, Malgioglio non ha dubbi. Probabilmente è giunta l’ora di dire basta col calcio.
Astutillo Malgioglio, prima uomo che calciatore
Ma nell’estate del 1986 arriva la chiamata del Trap e Malgioglio continua a parare. “Non è giusto che uno come te lasci il calcio” gli disse. “Con gli ingaggi dell’Inter rinnovai la palestra con attrezzature all’avanguardia. I ragazzi venivano da tutta Italia per fare rieducazione nel mio centro. Facevo allenamento al mattino ad Appiano, poi al pomeriggio lavoravo, facendo terapia con un disabile all’ora”. Già, perché il suo è un impegno in prima persona. Non è solo questione di raccogliere fondi e di organizzare strutture. Astutillo ha studiato medicina e dei suoi ragazzi si occupa in prima persona. Con le stesse mani ha parato centinaia di palloni e poi, sfilati i guantoni da gioco, ha sorretto le vite dei più deboli.
Chiuderà la carriera dopo una stagione all’Atalanta, lasciando il mondo del calcio in punta di piedi, ma senza rimpianti. “Un mondo folle, in cui non mi riconoscevo più” disse in un’intervista a L’Unità nel 1990. Era la vigilia di Lazio-Inter, che – ironia della sorte – lo vedeva titolare per la squalifica di Zenga. Trapattoni non ha dubbi: “Vai in campo – mi disse – non sentire i fischi che arriveranno, dimostra che uomo e che portiere sei”. L’Inter perse 2 a 1, ma Astutillo Malgioglio fu il migliore in campo. Auspicava un clima sereno, visto che aveva ripetutamente spiegato quel gesto di qualche anno prima e dichiarato che, tornando indietro, non l’avrebbe fatto. Prima del match, portò anche un mazzo di fiori sotto la curva laziale, in un gesto di pacificazione voluto dall’allora presidente dell’Inter Pellegrini. Inutile dire che la curva laziale non gli risparmiò comunque fischi e insulti.
(come disse l’avv. Prisco, quel pomeriggio il migliore in campo fu proprio Malgioglio)
Astutillo Malgioglio, un “esempio civile”
Ma, a quel punto della sua carriera, la serenità di Astutillo non era più in bilico e la sua vita, tra Milano e Piacenza, procedeva sui binari giusti. Purtroppo il mondo del calcio non ha molta memoria. Chiusa la carriera, anche i contatti si sono diradati. Lui non ha mai bussato alle porte per elemosinare fondi e ha portato avanti le sua attività come ha potuto. La palestra ha chiuso qualche anno più tardi, per mancanza di fondi e per i problemi di salute che lo hanno coinvolto. Ma l’impegno di Astutillo Malgioglio non è mai venuto meno e ha continuato il suo lavoro a domicilio, aiutando i ragazzi uno ad uno, nelle loro abitazioni.
Di recente il mondo del calcio si è ricordato di lui. Nel 2019 lo ha premiato l’Inter, nell’ambito delle iniziative contro le discriminazioni, con il premio “BUU – Brothers Universally United”. Quindi il riconoscimento arrivato motu proprio dal Presidente Mattarella. “Il premio mi fa molto piacere, ma sono sconvolto: non mi meritavo nulla. Lo dedico ai ragazzi sono loro che mi hanno fatto vivere bene la mia vita, che hanno aiutato me” ha dichiarato quando glielo hanno comunicato. Lo riceverà al Quirinale il 29 novembre, insieme ad altri trentadue eroi civili designati dal Presidente. E chi gli dice che è il giusto premio per una vita spesa per gli altri, Astutillo Malgioglio, risponde senza pensarci su:
No, questo non è vero. Sono loro i ragazzi, le famiglie, le mamme che hanno dato la vita a me, che mi hanno aiutato a capirne il suo significato.
“Perché la vita – dice Astutillo – è più di un pallone di cuoio che rotola”.
Simone Sciutteri