Quando l’arte incontra la politica, la battaglia non sarà mai combattuta ad armi pari.
Oggi come ieri il buon senso si scontra con la prepotenza del potere, coinvolgendo tutti, ma soprattutto alti rappresentanti della cultura che, loro malgrado, diventino pedine nel tragico doppiogiochismo delle istituzioni.
Anche il ventennio fascista mostrò il suo vero volto nei confronti dell’arte e della cultura, coinvolgendo alcuni tra i più importanti intellettuali del 900; da D’annunzio a Pirandello, Da Gentile a Marconi, e infine Arturo Toscanini.
Colui che è annoverato come il più grande direttore d’orchestra del secolo scorso pagò, anche a caro prezzo, la sua conversione, dal fascismo della prima ora all’antifascismo dell’esilio americano.
Arturo Toscanini, figlio di un garibaldino interventista, fu sempre attratto da quel nuovo vento socialista libertario e ribelle. Tale era la sua fede che nel 1919, dopo la I guerra mondiale, egli fu candidato nella prima lista fascista milanese, assieme a Benito Mussolini.
Toscanini non venne eletto e questo è stato, probabilmente, il suo biglietto d’ingresso nell’Olimpo della musica alta, dove la sua bacchetta risuonò le note più auliche e pulite, in quel mare di Letame che fu L’Europa del totalitarismo e della guerra.
Così quel legame di sangue con il futuro regime divenne presa di coscienza di un pericolo imminente al quale egli reagì con le sue armi.
Nel 1924 Toscanini, dopo la morte dell’amico Puccini, annunciò che non avrebbe diretto la prima esecuzione di Turandot alla Scala, se Mussolini presente.
Arturo Toscanini; la bacchetta contro i manganelli
La violenza squadrista purtroppo si scagliò anche con Toscanini e lo fece violando la sua sfera intellettuale e professionale.
In quell’occasione avrebbero dovuto essere presenti anche il generale Galeazzo Ciano e Leandro Arpinati. Pertanto era stato “chiesto” al maestro di inserire nella scaletta l’inno fascista Giovinezza e l’Inno reale.
Il suo rifiuto non venne certo tollerato da un gruppo di camicie nere che, capitanati da un giovane Leo Longanesi, lo assalirono all’ingresso laterale del teatro. Il Longanesi pare che gli abbia tirato anche un sonoro schiaffone.
Arturo Toscanini trova rifugio all’hotel Brun, dove lo attende il Federale Mario Ghinelli, seguito da un altro gruppo di squadristi facinorosi, intimandogli di lasciare subito la città.
Fu il compositore Ottorino Respighi a mediare con i gerarchi, per accompagnare il maestro al treno quella sera stessa.
Dello schiaffo di Longanesi, né parlò Indro Montanelli, ma non fu mai verificato, a differenza di quanto scritto dallo stesso scrittore, in merito a quell’aggressione:
“Ogni protesta, da quella del primo violino a quella del suonatore di piatti, ci lascia indifferenti”.
Questa vicenda sarà il culmine per Toscanini, il quale deciderà di lasciare l’Italia, alla volta degli Stati Uniti, per ritornare solo dopo la guerra, ma non stabilmente.
La lettera a Mussolini
Prima di questa decisione Arturo Toscanini scrisse una lettera di protesta al suo ex compagno di lista Mussolini: una missiva lucida e spietata, senza possibilità di redenzione per quello che il vecchio amico stava per fare al suo paese.
Quel concerto in onore di Martucci fu ripresentato al Comunale sessanta anni dopo, il 14 maggio 1991, sotto la direzione di Riccardo Chailly ma oggi, ottant’anni dopo fa bene ricordare o far conoscere qualcosa che permetta di avvicinare i più giovani a un personaggio anticonformista e rivoluzionario, che è stato oggetto di pregiudizio ideologico da entrambe le parti per troppo tempo, dimenticandosi, come fu per Gabriele D’annunzio, che Arturo Toscanini non fu solo un musicista o un direttore d’orchestra.
Arturo Toscanini rappresenta ancora oggi la genialità e la passione italiana nel mondo: la carica di spirito, coraggio e volontà che permise a Puccini la profondità mistica dei recitativi.
La consapevolezza della sacralità dell’arte, oltre l’uomo e testimonianza dell’uomo.
Toscanini era questo: colui che diresse Turandot seguendo la partitura fino a dove era riuscito a scrivere Giacomo Puccini dicendo;“Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto”.
Fausto Bisantis