Un murale realizzato in questi giorni nella frazione di Caprona, in provincia di Pisa, fa riesplodere l’antica rivalità fra Pisani e Fiorentini riecheggiata da Dante Alighieri tra i versi della Divina Commedia.
Dante e Caprona, un amore impossibile e settecento anni non bastano per lavare l’onta. Sembra la trama di un delitto passionale o di stampo mafioso, invece è l’incipit di una storia assurda che con la mafia ha a che fare, ma che ha come protagonisti arte e censura, ottusità e letteratura.
Caprona, il luogo del delitto. 1289, l’anno del misfatto. Sono passati dunque più di 700 anni dalla battaglia di Caprona che Dante Alighieri, l’illustre padre della lingua italiana, ebbe la “sciagurata” idea di narrare tra le pagine della Divina Commedia. I settecento anni poi sono effettivi per quanto riguarda la morte di Dante (1321) e per celebrare questo anniversario il comune di Vicopisano ha commissionato un lavoro all’artista Daria Palotti. L’artista, che proprio in questi giorni stava dando gli ultimi ritocchi all’opera, la sta portando a termine con passione e con il supporto di una comunità che la sostiene e, per rifarsi al mondo del calcio, fa decisamente il tifo per lei.
Arte e censura: dalla celebrazione all’indignazione
Il murale, che ritrae il profilo del sommo poeta accostato alla frase “A ricordare e a riveder le stelle” scelta dall’Associazione Libera, è dedicato dunque all’anniversario dantesco celebrato in relazione con la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. L’opera ha preso vita proprio nel luogo in cui nel 1289 si disputò una battaglia tra guelfi e ghibellini cui prese parte Dante Alighieri in persona al seguito del contingente fiorentino che ebbe poi la meglio sulla fazione pisana. Forse proprio questo schieramento ha motivato l’indignazione di alcuni cittadini che in queste ore hanno invaso i social di messaggi di protesta contro l’opera. I cittadini rivendicano l’ostilità nei confronti di Dante, memori dell’antica faida tra guelfi e ghibellini, probabilmente attualizzata tra tifoserie calcistiche pisane e fiorentine come mostrano chiaramente i colori scelti per gli slogan degli striscioni. Il sommo, accusato non solo di aver partecipato a una battaglia contro i pisani disputata proprio a Caprona, è anche reo di averne sancito imperitura memoria cantandone l’episodio nel 21° canto dell’Inferno:
«“Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;così vid’io già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti”.
La vendetta di Caprona
Dante non è certamente benevolo nella descrizione dei Pisani, ma con un po’ di attenzione sarebbe possibile notare che – a differenza di come molti stanno dichiarando anche in questi giorni – non paragona i pisani ai “diavoli” infernali bensì a se stesso spaventato dai diavoli proprio come i pisani pronti ad abbandonare la battaglia alla vista delle milizie fiorentine.
Sempre che non sia sufficiente ribadire la secolarità dell’episodio e che la licenza poetica non abbia bisogno di brevetto, si potrebbe ricordare quanto le insolenze del poeta siano frequenti nei confronti di più parti d’Italia. Basti pensare a come definisce i genovesi nel Canto XXIII dell’Inferno:
“Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogni magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?”
Nonostante ciò è possibile confermare che nei licei di tutta la Superba il sommo Poeta viene ancora proposto e studiato con immensa ammirazione e gode di ottima popolarità.
A Caprona invece non hanno preso bene l’idea di vedere onorato il profilo del sommo colpevole di cotante antiche, ma brucianti offese, e hanno dato vita a una serie di azioni di protesta. In un primo momento l’opera è stata imbrattata con le sigle della tifoseria pisana, successivamente con uno striscione che dichiara “Calci e Caprona, Dante non rappresenta la zona”. Insomma, Caprona non perdona. Gli iniziali episodi di protesta, che fino a un certo limite possono essere circoscritti come semplici manifestazioni di quel folklore e campanilismo che da sempre tratteggia gli animi dei toscani e che può essere considerato un’espressione della tradizione, sono poi sfociate in una sterile azione di polemica sui social mirata alla rimozione dell’opera.
Arte e censura ai tempi del web
Questa vicenda è l’ennesimo capitolo di una pratica che si sta sempre più diffondendo nel mondo dell’arte, la censura ai tempi del web. Sempre più frequenti sono infatti le iniziative di protesta, rivendicazione e atti vandalici partite dal mondo virtuale che, sulla base di una sedicente capacità di critica artistica, si permette di contestare opere di qualunque epoca utilizzando un parametro etico contemporaneo. L’arte non risponde a parametri di natura etica, bensì estetica e sarebbe intellettualmente disonesto “ricontestualizzare l’arte del passato sulla sensibilità del presente” come dichiara Luca Beatrice, critico e docente di storia dell’arte nel libro “Arte è libertà? Censura e censori al tempo del web”.
Stiamo vivendo una Fahreneit 451 dell’etica culturale, grazie a cui leoni da tastiera si arrogano il diritto di sdegnarsi per un’opera di Gauguin o Schiele perché ritenuta oltraggio al senso del pudore o rappresentante di un richiamo pornografico in ragione delle tormentate biografie degli autori. Si sta dunque restringendo la libertà dell’arte, sottoposta a rigide perquisizioni morali sull’onda del politically correct che irrompe da ogni epoca e ogni dove, mentre – paradossalmente – si sta allargando la voce in capitolo dei naviganti del web, convinti che basti avere un account su un social network per assumere la carica di direttore artistico.
Arte e censura: l’arena del disvalore
Il web da piattaforma nata per condividere l’informazione e facilitare la connessione in tempo reale si sta trasformando in un’arena in cui gareggiare attraverso la misura del “disvalore”. Il disvalore è la prima arma, la più subdola, per denigrare un individuo, un progetto, un’idea. Il disvalore è anche la cifra stilistica di chi sceglie di esporre, ma sarebbe meglio dire imporre, i propri sfoghi verbali figli di frustrazioni più o meno lecite vomitate all’interno dei social senza premura alcuna. Questa degenerazione del pensiero critico sta procedendo a ritmi serrati. Passa dalle invettive poco edulcorate delle tifoserie campaniliste alle nobili attività di “censura retroattiva” formulate con sempre maggior estro e fantasia dalle frange più progressiste della società.
La distanza, figlia e fedele compagna di questa pandemia, finisce così per restringere le possibilità di contatto, ma di contro amplifica la portata di un messaggio a aumenta l’eco di chi non ha ancora imparato a moderare il volume.
Serena Oliveri