Era il 17 luglio 1984, Arrigo Polillo è scomparso ormai da trentacinque anni ma il suo linguaggio narrativo semplice immediato e quasi “radiofonico” ci consegna, ancora oggi, una grande testimonianza d’amore e curiosità verso ciò che è stata la sua missione: raccontare la musica, il jazz in particolare, a un mondo eterogeneo.
L’autorevolezza e la conoscenza degli stili e dei nomi che hanno fatto la storia della musica afro-americana e oltre, hanno avuto il merito di non rivolgersi solo ai musicisti e ai cultori del genere.
Fin da quando è stato direttore della rivista “Musica Jazz”, Arrigo Polillo ha avuto un ruolo chiave nella diffusione di questo linguaggio, raccontando, alla stregua di uno speaker radiofonico di una stazione americana degli anni ruggenti, le origini e gli aneddoti su un disco, un artista o un semplice brano, grazie a una vena colloquiale, scherzosa e distesa, come fosse una splendida fiaba rivolta a tutti coloro che avessero la curiosità di ascoltare.
La prima parte esplora in maniera esaustiva le radici del jazz e l’itinerario compiuto dalla sua naturale evoluzione stilistica, affrontata da Polillo in chiave storico-musicale e a tratti anche musicologica: l’obiettivo è identificare i cardini essenziali del passaggio dagli Spirituals al Blues, considerata la madre delle diverse stratificazioni del Jazz, ma anche del rock’n’roll che avrebbe poi inciso sulla tradizione musicale europea.
Non è possibile ricercare le origini del jazz, senza analizzare il contesto sociale e ambientale nel quale il fenomeno nasce: ma se si deve parlare di origini, non si può non far riferimento ai luoghi che hanno dato vita alla musica nera in America; New Orleans, Chicago e New York.
Correva l’anno 1850 quando la capitale della Lousiana, ebbra di odore francese divenne il centro di quel futuro mondo armonico che nasceva sui campi di cotone, per incontrarsi fra i colori, le urla e le sottane di Congo Squire, dove lo scrittore Henry Didimus fu testimone involontario di qualcosa di assolutamente nuovo.
“Seduti su vecchi barili, gli schiavi sfruttavano quei pochi attimi di libertà per lasciarsi andare a ritmi e danze eseguite in cerchio fino allo sfinimento o all’estasi parossistica”.
Una comunità, fino a quel momento legata alle chiese battiste e metodiste, iniziò a portare i canti religiosi, fuori dai luoghi sacri, per immergerli in quegli attimi di vita vissuta e storie, a volte crudeli, a volte oscene, che sarebbero diventati il nuovo verbo della rivoluzione chiamato Blues.
Dodici battute per comporre un brano Blues, pochi accordi e poche note raccontavano un paese diviso tra il sacro e il profano, la liberazione voluta da Lincoln e il retaggio oltranzista degli stati schiavisti. L’America conosciuta era solo una parentesi; il KKK non esisteva fino a quando due attivisti bianchi furono uccisi in Alabama, ma questo non impedì che il treno del blues diventasse il Deus ex-machina di una colorata e ibrida rivoluzione musicale che avrebbe avuto varie stratificazioni.
Dal delta blues di Big Bill Broonzy all’evoluzione pianistica del Ragtime di Scott Joplin, le chitarre costruite a mano con le corde di ferro lasciarono il passo a stili pianistici sempre più sofisticati dal punto di vista ritmico e melodico; capaci di divertire, far saltare letteralmente un pubblico in preda al delirio dei sensi.
Arrigo Polillo racconta e fa ascoltare alcune delle icone che fecero di New Orleans una città della musica e della trasgressione.
Qui le note ruvide e impressioniste di Buddy Bolden e provenienti da qualche fumoso sottoscala, si scontravano con il pianismo seducente e discreto di Jelly Roll Morton (colui che si autodefinì l’inventore del Jazz), raccontando i segreti più delicati di una casa d’appuntamenti, in una parentesi di rosso, ebano e avorio tra le luci di Storyville, che avrebbe influenzato lo stile delle grandi bande di strada, nonché le future orchestre da ballo come quella del cornettista Bunk Johnson; colui che sosteneva di aver insegnato la musica ad un “certo” Louis Armstrong.
Successivamente, i protagonisti diventano le future piazze della Dixieland e delle grandi orchestre da ballo, come quelle dettero i natali artistici a Satchmo, ma anche Billie Holiday, Miles Davis a Ornette Coleman. Chicago era la nuova mecca e qui anche lo stesso Al Capone non lesinava mance da capogiro ai grandi della scena locale.
Da Chicago a New York, per guidarci nella lettura sonora dei protagonisti vecchi e nuovi, continuando a interrogarsi sulla natura del Jazz alla fine del secolo scorso: la svolta elettronica di Miles Davis con Bitches Brew e la fusione stilistica degli anni ’70, quanto hanno contribuito ad allargare la prospettiva stilistica dei nuovi artisti?
A questi e altri poliedrici interrogativi Polillo offre considerazioni e ricerche accurate, senza essere mai, né troppo generalista, né troppo aleatorio, ma anzi, offrendo uno spunto di riflessione innovativo e appassionato a chiunque voglia accostarsi a un mondo musicale che ha affondato le sue radici, nelle tradizioni di tutto il mondo, tanto da diventare un linguaggio profondo ma anche universale.