Si è sempre detto di noi italiani che “non siam popolo perché siam divisi”, perché, per quante cose ci accomunino, riusciamo sempre a porre l’accento su quelle che ci dividono.
Non so se sia realmente così, né se in Francia si lamentino di quanto gli inglesi siano ben più popolo di loro. Di sicuro l’erba del vicino è sempre un po’ più verde e questo vale un po’ dappertutto.
Quel che però sembra emergere in questa surreale quarantena, come in altre circostanze eccezionali, è la nostra capacità di stringerci intorno a un centro.
Questo ritrovato amor di patria si declina nei modi più disparati, dalle tarantelle sui balconi agli insulti alla Merkel, dalla infinita solidarietà di cui siamo capaci alla delazione contro i runners, i nuovi nemici pubblici.
Un calderone variopinto in cui, a pensare male, sembra essere la paura il vero collante, ben più di un riscoperto amore per il tricolore.
Forse la ragione è semplicemente storica. Troppo pochi i nostri centocinquata anni suonati per farci veramente italiani. Forse aveva ragione Gramsci e la Storia insegna ma non ha scolari.
E se invece di centocinquanta, l’Italia ne avesse oltre mille di anni?
Immaginiamo, in uno slancio di fantasia, l’odierna Pavia come una grande metropoli, capitale del Regno d’Italia. Centro politico, sede del Parlamento e luogo dove per secoli sono stati incoronati i regnanti della Penisola.
Per farlo occorre tornare a cavallo tra la fine del 900 e gli inizi dell’anno 1000, in pieno Medioevo. L’Europa era scossa da profondi tumulti e i soliti giochi di potere tenevano occupati regnanti e aspiranti tali.
Nel pieno feudalesimo i re, anche con una corona sul capo, avevano vita difficile dovendo costantemente tenere testa alla ricca e potente nobiltà che li aveva eletti, per nulla decisa a rinunciare all’indipendenza e ai privilegi che essa comportava.
Essere re significava estendere il proprio dominio sul feudo controllato e su pochi feudi vicini ed amici.
Il 23 gennaio dell’anno 1002 moriva improvvisamente a Roma, a soli ventidue anni, Ottone III, re dei Franchi orientali (Germania), Re d’Italia e Imperatore.
Nipote di quell’Ottone I che aveva restituito la corona d’Italia al rinascente Sacro Romano Impero e che si era fatto portatore di quel feudalesimo ecclesiastico che, per indebolire il potere dei grandi nobili feudatari, elargiva ai vescovi un forte potere temporale nel controllo delle città, cosicché una volta morti i reggenti tutti i territori tornassero nelle mani della corona.
L’ultimo re
Come detto, intrighi, cospirazioni e giochi di potere erano il pane quotidiano in questo confuso scenario.
Fu così che, sfruttando l’improvvisa morte dell’imperatore, che non aveva lasciato né figli né eredi, alcuni vassali italici, ostili alle politiche pro vescovili degli Ottoni e forse mossi dal desiderio di strappare la corona italiana dalle casate germaniche, fecero eleggere il 15 febbraio del 1002 nella basilica di San Michele Maggiore a Pavia il marchese Arduino di Ivrea quale nuovo re d’Italia.
Ma chi era Arduino di Ivrea?
Già in quegli anni il suo curriculum vantava due scomuniche per opera di un vescovo e addirittura di Papa Silvestro II.
Forse discendente della casata degli Anscarici, forse degli Arduinici, il neo re d’Italia si era fatto un nome per i suoi forti contrasti con i vescovi e i privilegi di cui godevano grazie alle politiche degli Ottoni.
Nel 997 i contrasti col vescovo di Vercelli sfociarono in guerra e, seguito dai fedeli secundi milites, i vassalli minori, mise a ferro e fuoco la città, incendiò il Duomo e provocò la morte dell’odiato vescovo Pietro guadagnandosi l’appellativo di episcopicida.
Ciò gli provocò la scomunica per opera di Warmondo vescovo di Ivrea, fatto che non impedirà al prelato di sostenere la sua elezione a re di soli cinque anni dopo, a conferma di quali fossero i precari equilibri su cui si muovevano i protagonisti del tempo.
Tanto clamore gli procurò ovviamente molti nemici. Il più illustre tra essi, l’arcivescovo di Milano Arnolfo d’Arsago, temendo per il proprio potere, invocò la discesa in Italia del neo eletto Re di Germania Enrico II, cugino del defunto imperatore Ottone III.
L’illusione
Il primo scontro armato arrise ad Arduino, che nel gennaio del 1003 nella battaglia di Fabbrica nella valle del Brenta sbaragliò il contingente tedesco inviato dal re e guidato dal duca Ottone di Carinzia. Ciò valse al Re d’Italia anche la marca di Verona.
Nonostante la vittoria conquistata, le truppe di Arduino di Ivrea dovettero disperdersi per l’avvento di un contingente italiano composto da uomini ostili al marchese di Ivrea e fedeli al futuro imperatore Enrico II. Non tutti i feudatari infatti appoggiavano l’ascesa di questo uomo d’armi e la sua politica aggressiva e apertamente anti germanica, trovando più conveniente scommettere sul potente Re dei Franchi orientali.
La discesa di Enrico II
Deciso a farla finita con quello che considerava a tutti gli effetti un usurpatore, nel 1004 Enrico II valicò le Alpi a capo di un potente esercito e mise in fuga le truppe di Arduino nella Valsugana, costringendolo a ripiegare nelle sue marche.
Deposto l’ultimo re di stirpe italica, Enrico si fece porre sul capo, dall’arcivescovo Arnolfo nella basilica di Pavia, la corona di ferro del Regno d’Italia. Fatto che causò una rivolta popolare nella capitale del regno, tanto da costringere il germanico a fuggire nuovamente Oltralpe.
Per dieci anni, sfruttando l’assenza di Enrico II dall’Italia, che nel frattempo fu impegnato ad est dei confini germanici dall’invasione dei polacchi, Arduino di Ivrea continuò a regnare quale Re d’Italia emanando diplomi regi e coniando persino una sua moneta.
L’Italia di Arduino di Ivrea
Ovviamente quando ci si riferisce al Regno d’Italia conteso tra il marchese di Ivrea e la corona tedesca, parliamo di una serie di territori che non corrisponde a quello che più di ottocento anni dopo sarà il dominio su cui i Savoia costituiranno l’unità.
L’Italia di Arduino di Ivrea comprende tutti i territori precedentemente sotto il dominio longobardo, il Nord Italia, la Toscana e l’Emilia Romagna, escludendo quindi tutti i possedimenti pontifici, il meridione con i suoi “statarelli” ex longobardi e i territori appartenenti all’Impero Bizantino e le isole, di cui la Sicilia in mano ai saraceni.
Re senza corona
Fino al 1014, anno della nuova discesa in Italia di Enrico II, Arduino di Ivrea regnò come Re de facto, seppure non riconosciuto dalla maggioranza dei grandi feudatari che lo avevano abbandonato e riuscendo a far valere la propria voce solamente sulla pianura padana dove spadroneggiava seguito dai vassalli minori.
Ciò non gli impedì comunque di continuare a combattere i suoi acerrimi nemici, i vescovi. Caso emblematico fu la nomina a vescovo di Asti di Alrico, fratello di Olderico Manfredi II, da lui caldeggiata in aperto contrasto con l’arcivescovo di Milano Arnolfo.
L’ epilogo
Con l’ultima discesa in Italia del 1014, Enrico II, Re dei Franchi Orientali e Re d’Italia, fu proclamato imperatore a Roma da Papa Benedetto VIII.
Arduino, con la discesa del potente esercito germanico, si era nuovamente arroccato nei suoi possedimenti, pronto a dar battaglia nelle vicine Vercelli, Novara e Pavia.
A causa dei forti contrasti con il marchese Bonifacio di Toscana e con lo storico rivale, l’arcivescovo di Milano Arnolfo, abbandonato dai signori feudali che lo avevano eletto Re, dai Canossa agli Aleramici, dagli Obertenghi agli Arduinici di Torino, al marchese Arduio di Ivrea, sopraggiunta inoltre una grave infermità, non restò che deporre le armi e trattare la resa per garantire dei possedimenti agli eredi.
Poco meno di un anno dopo, nel dicembre del 1015, presso l’abbazia di Fruttuaria a San Benigno Canavese, dove si era ritirato, moriva l’ultimo Re di dinastia italica.
Le sue spoglie, dopo una serie di vicissitudini nel corso dei secoli, riposano nel castello di Masino nel Canavese, ad alimentare un mito cavalcato dal Risorgimento e giunto fino a noi.
Alessandro Leproux