Il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha condannato più volte il Paese per la violazione dei diritti umani
L’Arabia Saudita viene generalmente associata ai pozzi petroliferi, alle politiche di egemonia economica, agli accordi internazionali, al regime autoritario e integralista. Ma dal 2017 qualcosa è cambiato. Dopo l’incoronazione del principe ereditario Mohammed bin Salman, il Paese si è aperto a una nuova stagione riformatrice e ha cercato di abbandonare gli aspetti più conservatori del Paese.
L’ultima novità del piano del principe “Vision 2030” riguarda il turismo. Se l’obiettivo del piano è quello di staccarsi dall’immagine di un Paese che viene identificato agli occhi del mondo con il petrolio, la mossa del turismo risulta azzeccata. Per essere indipendente dai mercati petroliferi entro il 2030, infatti, investire sul turismo per un Paese dal mare cristallino e con un deserto mozzafiato può portare a risultati economici interessanti. Ebbene, l’apertura dell’Arabia Saudita in questo senso riguarda la possibilità per i cittadini di 49 paesi del mondo di ottenere un visto turistico per visitare il paese.
Finora i visti erano concessi solo per brevi viaggi di lavoro o pellegrinaggi religiosi. Il principe spera che rendendo il paese una meta turistica, il turismo passerà dal 3% (garantito al momento dai pellegrinaggi a Mecca e Medina, con 2,5 milioni di fedeli nel 2019) al 10% del Pil entro il 2030.
Dopo la decisione “storica”, come è stata definita dal governo, è stato assicurato che i consolati sauditi rilasceranno ai cittadini stranieri un visto turistico in sette minuti, valido per 90 giorni.
A quali condizioni?
A fronte dell’apertura positiva, il ministro dell’Interno ci tiene a precisare che i turisti verranno multati in caso di violazioni al “pubblico decoro”. È stato pubblicato un codice di condotta che comprende 19 violazioni, ad esempio: vestirsi in modo indecoroso, compiere gesti di affetto in pubblico, scattare fotografie a terzi senza permesso, sputare, urinare, mettere la musica durante l’orario di preghiera.
La Mecca e Medina continueranno a essere accessibili solo ai musulmani e resterà in vigore il divieto di consumare bevande alcoliche.
Una “concessione” per le donne
Le turiste che visiteranno l’Arabia Saudita non saranno obbligate a indossare l’abaya (l’abito tipico delle donne del Golfo Persico, che copre tutto il corpo). Dovranno coprirsi, però, le spalle e le ginocchia ma non i capelli. Le multe possono andare da 50 a 6.000 riyal (da 12 a 1.500 euro).
Gli sforzi del Paese
Considerato il fatto che le donne in Arabia Saudita non potevano neppure mettersi al volante di un’auto (divieto abolito a giugno 2018), concedere di viaggiare fuori dal Paese senza l’autorizzazione di un tutore o un uomo è una grande conquista. Finora erano esentate da questo obbligo solo le donne con più di 45 anni d’età. Forse influenzati dal nuovo piano di apertura verso l’Occidente, qualcosa sta cambiando sul fronte dei diritti e della libertà personale anche per i cittadini arabi. Sarebbero in approvazione nuove norme che regolano lo stato civile dei sauditi, il diritto al lavoro e alla mobilità, inclusi i viaggi all’estero.
La strada per i diritti umani è ancora lunga
Se da una parte c’è lo sforzo di riformare norme e costumi, dall’altra c’è da riflettere sul fatto che queste aperture non vengono sempre fatte in nome di una maggiore libertà, ma per mero utilitarismo.
Il Paese ancora affonda in un’arretratezza culturale e sociale che ben poco ha a che fare con la società occidentale. Sono state soppresse forme di dissenso, è di qualche mese fa l’arresto di varie attiviste che si battevano per i diritti delle donne. Secondo il rapporto di Human Rights Watch, l’Arabia Saudita ha una limitata libertà di espressione, associazione e libertà religiosa.
Il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha condannato più volte il Paese per la violazione dei diritti umani: operazione singolare visto che nel 2016 l’Arabia Saudita è stata eletta come membro del Consiglio dell’ONU e dal 2017 è entrata nella Commissione per i diritti delle donne. Una nomina in netto contrasto con la situazione del Paese dove avvengono esecuzioni capitali, detenzioni illegali, torture e innumerevoli violazioni dei diritti umani. Senza contare l’appoggio militarista alla guerra civile nello Yemen.
Le associazioni umanitarie come Amnesty International hanno sempre condannato queste scelte e sollecitato le Nazioni Unite a prendere una posizione chiara nei confronti del Paese.
Marta Fresolone