Il 6 aprile 1917 il Congresso degli Stati Uniti votò la dichiarazione di guerra al governo imperiale tedesco, un evento storico drammatico che segnò l’inizio di un nuovo corso per la politica americana e per la politica mondiale, l’inizio di quello che è stato chiamato il “secolo americano”. Il giorno successivo, il 7 aprile 1917, si aprì a St. Louis, nel Missouri, il congresso straordinario del Socialist Party of America che dichiarò la sua “inalterabile opposizione alla guerra”, segnando, allora e per il secolo a venire, il suo destino e quello della stessa idea socialista in America.
Vediamo un po’. L’appello socialista alla resistenza è alto, netto, senza compromessi. Il SPA proclama la sua fedeltà all’internazionalismo operaio e considera la dichiarazione di guerra “un crimine contro il popolo degli Stati Uniti e contro le nazioni del mondo”. Dice: questa non è una guerra per la democrazia in Europa, “la democrazia non può mai essere imposta a un paese da una potenza straniera con la forza delle armi”. E soprattutto, al di là delle chiacchiere, impegna i suoi militanti a una “opposizione continua, attiva e pubblica, tramite dimostrazioni, petizioni di massa, e altri mezzi a nostra disposizione”, in particolare contro la coscrizione obbligatoria, da ostacolare in ogni modo.
Il partito socialista è piccolo ma tutt’altro che ininfluente. Alle elezioni presidenziali del 1912, con il suo leader più noto e amato (e chi non ama Eugene Debs?), prende quasi un milione di voti, il 6% del totale. Ha migliaia di sezioni (compreso il Socialist Club di Harvard, per dire), ha centinaia di organi di stampa che vendono centinaia di migliaia di copie, è attivo nei sindacati e spesso i suoi militanti ne sono i dirigenti, governa città e cittadine nel Nordest e nel Midwest, elegge molti deputati statali, arriva a eleggere un paio di deputati in Congresso. E soprattutto: sta crescendo ed è un soggetto controverso ma del tutto legittimo nel discorso pubblico nazionale.
Schierandosi contro la guerra il partito dà voce a pezzi di opinione radicale e pacifista – ma si gioca tutto questo. Come altri attivisti anti-guerra, i socialisti incappano nella legislazione patriottica emergenziale. Ci sono giornali sequestrati, riunioni vietate, dirigenti tartassati e arrestati. Debs finisce in carcere per un comizio in Ohio in cui invita a resistere alla leva, e dal carcere fa la sua campagna come candidato presidenziale nel 1920, “Convict No. 9653 for President”. Il partito nel complesso ne soffre, ne esce a pezzi, tanto più frantumato poi dalle scissioni comuniste. Ma credo che questo sia anche il meno, sia contingente: due sviluppi sono molto più importanti sul lungo periodo.
In primo luogo, sulla questione della guerra i socialisti rompono con i sindacati, e si tratta di una rottura storica da cui non si torna indietro. La American Federation of Labor, guidata dal presidente anti-socialista Samuel Gompers, appoggia lo sforzo bellico e collabora con il governo e i datori di lavoro alla sua gestione; le unions affiliate ne traggono vantaggio e raddoppiano gli iscritti. I dirigenti sindacali socialisti lasciano o sono rimossi, oppure restano e si convertono per convinzione o per sopravvivere. Da allora in poi il movimento operaio organizzato americano va per la sua strada, separata da quella socialista.
In secondo luogo, le parole “socialismo” e “socialista” finiscono per essere associate alla slealtà anti-patriottica e al magico aggettivo destinato a grande successo, “un-American”. Se i socialisti sono, come tanti americani, immigrati tedeschi o austriaci o ungheresi o irlandesi, è possibile che siano non pacifisti in buona fede bensì una quinta colonna del nemico, agenti anti-inglesi, agenti del Kaiser? Il sospetto nasce nella società multietnica, è usato dalla propaganda governativa, poi si consolida e mette stabili radici nella cultura sociale e politica. Da allora in poi le idee socialiste perdono legittimità nella sfera pubblica, ne sono espulse, sono marchiate come aliene, estranee all’esperienza nazionale.
Tutto ciò è l’inizio di una storia lunga e complessa che certo non posso dipanare qui. Una cosa però posso dirla. A cominciare da allora e per tutto il Novecento gli Stati Uniti, a differenza dei paesi industriali capitalistici paragonabili, non hanno un partito socialista o laburista abbastanza forte da incidere sulla politica nazionale. Prima della guerra il partito c’è e cresce, come altrove; dopo la guerra diventa insignificante. Nel secolo americano questa è la grande diversità americana, riassunta nella celebre domanda, “Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo”, intendendo con ciò, appunto, la mancanza di un movimento o partito socialista di massa.
Un’altra cosa potrei dire, che non avevo in mente all’inizio di questo articolo. Sparandola un po’ grossa, tanto per provare come viene. Sarà un caso se, a un secolo dal 1917, nel momento in cui si discute di fine del secolo americano, e mentre i socialisti non godono di buona salute da nessuna parte – la parola “socialismo” ritorna legittima nella piazza pubblica degli Stati Uniti? Lo ritorna nella campagna di Bernie Sanders. Lo ritorna in ciò che vi sta dietro e cioè nel fatto che, secondo ripetuti sondaggi d’opinione, quattro cittadini adulti su dieci dicano di preferire il socialismo al capitalismo. L’altro giorno i conservatori della National Review (vedi qui) l’hanno messa giù così: “La crescente popolarità del socialismo minaccia il futuro dell’America”. Ma davvero, chissà.