L’uso del hijab sulle passerelle più conosciute al mondo si è imposto sulla scena negli anni tra il 2016 e il 2018. Nel 2018 hanno sfilato moltissimi look ispirati a questo capo. Si trattava appunto di ispirazione, emulazione, e al contrario era molto difficile che si parlasse di una vera e propria modella musulmana che sfilava con il suo hijab. Da quando è arrivata Halima Aden, prima modella a indossare un hijab su una copertina di Vogue, lo scenario è un po’ cambiato. Aden si è affermata come modella internazionale, ma piano piano sembra essere stata trasformata nella rappresentante di tutta la categoria delle donne musulmane con il hijab. Una costrizione che forse l’ha soffocata fino a quando, nel novembre del 2020, ha lasciato l’industria della moda. Ciò che sembra essere accaduto nei più grandi marchi del mondo è proprio un’appropriazione del hijab come strumento, e non invece come simbolo osservato e rispettato.
L’appropriazione del hijab da parte della moda occidentale è qualcosa che si scorge non solo dai racconti delle difficoltà che ha vissuto Aden, ma anche in quelli di diverse donne musulmane. La percezione è che: “le donne musulmane hanno lanciato una moda, mentre noi altre musulmane e occidentali siamo rimaste tagliate fuori”. Queste sono le parole dette a Vogue di Heba Jalloul, fashion blogger americano-libanese. Ciò che pare emergere infatti è un’illusione di inclusività.
L’appropriazione del hijab prende svolte politiche
Nel 2018, quando Gucci, Marc Jacobs, Versace e non solo hanno arricchito la moda con il hijab, il dibattito pubblico si è infuocato. Tra chi sosteneva che il hijab fosse simbolo di oppressione a chi credeva che la sua presenza nell’industria della moda potesse combattere almeno in parte l’islamofobia sempre crescente. Ancora, una minoranza ha sostenuto che il simbolo rischiasse di essere mercificato.
Considerando che viviamo in un mondo in cui le merci e i consumi fanno da padroni, non si può vedere come uno scandalo che anche un hijab possa essere esposto e venduto. Il problema, piuttosto, risiede nel modo in cui lo si presenta. Sappiamo cos’è un hijab? Lo facciamo indossare a delle modelle musulmane?
Il hijab è un simbolo fortissimo, religioso e politico. Sicuramente non può dirsi desacralizzato come, ad esempio, la croce cattolica: ancora oggi chi lo indossa esercita un potere, inteso come espressione di una scelta rispetto a sé stessa. Il hijab non è solo un segno religioso. Durante la guerra di indipendenza algerina, infatti, le donne iniziarono a usarlo per sfidare l’imposizione da parte dell’esercito francese di toglierlo. È chiaro che noi occidentali abbiamo un’ossessione nei confronti del hijab e sin dall’epoca coloniale non riusciamo a cedere il monopolio di questo simbolo a chi lo detiene. Come se spettasse al colono la scelta sull’individuo musulmano. Da qui deriva il senso di appropriazione che la moda esplicita sulle passerelle nei confronti del hijab.
I look della moda occidentale, però, con le loro composizioni di veli, non sono nient’altro che una versione vecchia, passata di moda da anni, almeno rispetto a dove il velo si porta da sempre, sperimentando continuamente nuove modalità per portarlo.
Halima Aden non è un manichino
Durante le sfilate del 2018, il hijab è sempre stato presente, ma, nonostante ciò, non è mai stato chiamato con il suo nome. Un altro segno che si sta maneggiando un oggetto ardente. Chi non ha mai avuto paura di usarlo, chiamarlo con il suo nome ed esibirlo fieramente è stata (ed è, ora però, in vita privata) Halima Aden.
Aden, come lei stessa afferma, ha voluto, nel suo percorso da predecessora, coniugare l’attivismo con la moda. È diventata infatti non solo la prima modella con il hijab, ma anche ambasciatrice dell’Unicef. La modella di origini keniote ha però lasciato l’industria della moda nel novembre del 2020, dichiarando di essere:
Una minoranza all’interno di una minoranza.
In un’intervista alla Bbc ha affermato quella che potremmo definire la deriva per eccellenza dell’appropriazione culturale nei confronti del hijab:
Negli ultimi anni mi sono fidata della squadra sul set per creare il mio hijab e da lì ho avuto problemi. Come nel caso dei jeans che mi venivano messi in testa al posto di un normale velo. Il mio hijab continuava a rimpicciolirsi e diventava sempre più piccolo a ogni scatto.
All’appropriazione segue quindi l’obsolescenza, soprattutto se si ha a che fare con un capo che riveste un determinato significato, troppo spesso incompreso. Aden era stanca di essere un unicum. Privilegiata, al contrario di altre sue colleghe musulmane che non beneficiavano delle cure a lei destinate. Così, si vuole immaginare, si è rimessa il suo hijab e ha abbandonato il set. L’industria della moda però non sembra ancora aver capito i risvolti delle sue azioni. Chissà se un giorno il hijab smetterà di essere una tendenza delle donne occidentali e ritornerà a essere un capo essenziale per le donne musulmane.
Antonia Ferri