Appropriazione Culturale. Ovvero mancare di rispetto ad una cultura diversa dalla propria adottandone impropriamente usi e costumi. Dalla moda al cinema, dai giochi al cibo, negli ultimi anni si sono moltiplicati le accuse e le polemiche in tal senso. Ultimo l’attore Michael B. Jordan, costretto a cambiare il nome del suo nuovo Rum perché considerato offensivo nei confronti della cultura caraibica.
Partiamo da un presupposto. L’appropriazione culturale è colpa nostra. Della nostra cultura “dominante” che per secoli ha martoriato e sfruttato le minoranze etniche. Non si può biasimare chi guarda con circospezione o rabbia all’utilizzo dei loro simboli, anche se in modo privo di malizia. Non si può fidare chi, per secoli, ha visto solo il peggio della cultura occidentale. Il colonialismo, la prepotenza, la distruzione. Soprattutto perché ancora oggi la parte marcia della nostra società emerge ancora davvero troppo spesso.
Il punto, dunque? Il punto è che non esiste integrazione dove non c’è scambio. Che non esiste rapporto dove non c’è fiducia. E che non esiste fiducia dove non c’è conoscenza. Il modo migliore per rispettare le altre culture è assaporarle, viverle, provarle anche sulla propria pelle. Una società multietnica e equa come quella auspicata è un mondo dove non esiste il noi e il loro. Dove tutti siamo pari, e in quanto tali mettiamo la nostra cultura e le cose belle che si hanno da offrire a disposizione della collettività globale per crescere, senza per questo vedere minacciata la propria identità. Come, per altro, già avviene solitamente tra i paesi occidentali. Che però, appunto, non hanno alle spalle secoli di derisioni, soprusi e sfruttamenti.
In quest’ottica, i confini estremamente sottili della famosa “appropriazione culturale” non aiutano. Con troppa facilità un semplice apprezzamento si trasforma in torto o in offesa, senza beneficiare nessuno se non i paladini del politically correct da social network.
Bisogna costruire i ponti, insomma, e ricongiungersi. Da una parte c’è l’eccessiva superficialità di chi non intende mancare di rispetto, ma il più delle volte non conosce e pecca di leggerezza, dall’altra parte il comprensibilissimo scetticismo di chi per anni si è sentito emarginato e ha tutti i motivi di non credere alla buona fede. Li, in mezzo, ci sono i veri vincitori. Gli speculatori, chi guadagna da questa divisione. Quelli che hanno interessi a far si che le culture non si incontrino. A continuare a dividere e a chiudere i ponti. Quelli che davvero dovrebbero essere mire e bersaglio di una battaglia che, sulle sottigliezze e le formalità, dovrebbe spostarsi sui veri fronti. In fondo, tra i tanti, c’è anche chi ha già trovato il modo giusto di convivere: senza dita puntate, senza sovrastrutture.
Beatrice Canzedda