La Apple dovrà pagare 13 miliardi di euro di tasse arretrate all’Irlanda, riferite al periodo 2003-2013. Così ha stabilito la Commissione Europea, al termine di un’indagine durata almeno tre anni.
La questione si inserisce nel contesto più ampio della lotta della Commissione ai paradisi fiscali e agli stati che – più in generale – applicano delle politiche fiscali particolarmente favorevoli alle grandi corporations (soprattuttto statunitensi). Lotta iniziata de facto con lo scandalo Lux Leaks di un paio di anni fa, e che oggi si arricchisce di un nuovo capitolo. Ma vediamo i fatti.
Il punto importante da cogliere è che Apple non è accusata di evasione fiscale. Infatti, come giustamente sostenuto dal CEO Tim Cook in una lettera, Apple in Irlanda ha sempre pagato le tasse previste dalla normativa di quel paese. Dov’è quindi l’inghippo? Semplice: che per le grandi aziende l’Irlanda (e altri stati) ha creato una fiscalità parallela rispetto a quella generale, attraverso lo strumento degli accordi diretti tra amministrazione pubblica e corporation. Questa è una infrazione alle norme europee, in quanto costituisce un aiuto di stato mascherato, in grado di falsare la concorrenza tra imprese. E questa è proprio l’infrazione contestata alla Apple, che dovrà risarcire l’Irlanda con i 13 miliardi di cui sopra.
Vi è però un’apparente stranezza in tutta la storia: l’Irlanda ha annunciato che farà ricorso contro la decisione della Commissione UE, così come Apple. Ma se la posizione di Apple è più che comprensibile, quella del governo irlandese lo è apparentemente meno. Perché l’Irlanda farà ricorso? Perché, grazie a questo accordo, la Apple da sola ha creato circa 5.500 posti di lavoro in Irlanda, senza considerare le altre aziende che hanno stretto accordi simili. Il governo irlandese ritiene quindi che questo credito nei riguardi di Apple non esista, perché l’azienda avrebbe creato una ricchezza molto maggiore stabilendosi in Irlanda piuttosto che altrove. In effetti, come si fa notare su Il Post, è normale che le grandi aziende si spostino costantemente alla ricerca delle migliori condizioni fiscali disponibili sul mercato.
Tuttavia, la questione non si può circoscrivere semplicemente ad una violazione delle regole comunitarie, bensì si tratta di qualcosa di più grande: si parla, cioè, dell’enorme potere che hanno le più grandi corporations del mondo di poter influenzare la politica fiscale ed economica degli stati sovrani, negoziando da pari a pari le migliori condizioni possibili (cifre ridicole che imprese medie e piccole, anche nella stessa nazione, possono soltanto sognare, o incentivi di vario genere) dietro la creazione di posti di lavoro. Fino a quando le aziende avranno il coltello dalla parte del manico, ossia la possibilità di creare posti di lavoro in aree anche depresse, i rapporti di forza saranno sempre sbilanciati in quella direzione.
Ma è qui appunto che è intervenuta la Commissione UE: data l’impossibilità (nel concreto) per i singoli stati di rinunciare ad offerte di questo tipo, l’organo sovranazionale cerca di rimettere ordine, per far si che l’Unione raggiunga un livello di sviluppo più o meno omogeneo senza bisogno di ricorrere a questi trucchetti di bassa lega. Infatti è cosa nota, anche a chi non ha studiato economia, che il mercato non è in grado di redistribuire in maniera equa la ricchezza che produce, bensì questa tende a concentrarsi nelle mani dei più forti (che la useranno per espandersi ulteriormente), ed è la mano pubblica a doversi far carico della redistribuzione della ricchezza.
A lasciare mano libera al mercato, detta in parole semplici, si arriva alla guerra tra poveri. Ma questo i singoli stati dell’UE faticano a capirlo, e anziché remare insieme nella stessa direzione cercano di andare ognuno per se, arraffando le briciole che cadono da sopra il tavolo. Senza comprendere che per sopravvivere nel mondo globalizzato più si hanno le spalle larghe, più si è in grado di incassare colpi e imporre condizioni giuste agli investitori. Anche se si chiamano Apple.
Lorenzo Spizzirri