Matrix, la programmazione sotto l’apparenza
Il flusso del linguaggio di programmazione scorre sotto l’apparenza. Neo vede finalmente ciò che ha intorno per quel che è, stringhe alfanumeriche verdi che riempiono l’oscuro vuoto di silhouettes che non esistono realmente. Nel primo film della serie Matrix, è il momento in cui ferma le pallottole degli agenti con cui sta lottando; l’istante in cui acquisisce la piena consapevolezza del suo essere, della sua posizione, e della finzione, Matrix appunto, in cui si trova. Nel continuo movimento dei codici di programmazione, nel loro ripetersi e modificarsi che definisce tutte le variabili di un mondo vero, si tiene in piedi l’illusione che Neo, solo ora, è in grado di comprendere e combattere.
L’arte contemporanea che lavora sugli strumenti dell’apparenza
Questo svelamento della strumentazione, in grado di creare un fittizio spazio tridimensionale, può essere visto in rapporto alla rappresentazione di un soggetto fornita da un pittore in quadro. In esso i pennelli e i colori hanno garantito per secoli la presentazione di un’immagine che intrinsecamente illude, che racconta qualcosa in un’ambiente che si mostra come simulazione del mondo in cui viviamo. Nella storia dell’arte contemporanea, invece, la ricerca sempre più diretta a lavorare sulla stessa materia artistica, sui colori e l’atto stesso del dipingere nel caso specifico di un quadro, ha ridotto di molto il ruolo della rappresentazione di un soggetto in arte; questo ha portato a dei risultati che possono retrospettivamente essere messi a confronto con l’effetto ottenuto sullo spettatore dal primo Matrix.
La pennellata di Munch
Basta prendere un autore come Munch; intorno alla metà del primo decennio del Novecento fece una serie di quadri, come Amore e Psiche, in cui forti tocchi pittorici segnano tutta la tela. Le persone raffigurate sono definite e caricate espressivamente da ed entro questa trama continua di pennellate che piove verticalmente sull’ambiente raffigurato e modella i corpi. Appare allo spettatore una superficie dove non più si entra in profondità per studiare e decodificare la storia narrata, ma dove l’attenzione e il portato emotivo si appiattisce, parla in maniera sempre maggiore della bidimensionalità causata da un pennello che solca la tela per posarvi una serie di colori.
Nannetti, un muro dell’ospedale psichiatrico di Volterra
Oltre il famoso pittore norvegese, vorrei portare un altro caso, di un’autorialità ai margini del sistema culturale, che rientra nel mondo artistico dell’art brut come definito da Jean Dubuffet: Oreste Fernando Nannetti. Recluso nell’ospedale psichiatrico di Volterra, Nannetti portò avanti durante le sue ore d’aria un lavoro monumentale: su settanta metri di un muro dell’ospedale incise con la fibbia del proprio gilet un enorme documentazione testuale del proprio pensiero, fatto di frasi più o meno sconnesse, neologismi e simboli.
Il flusso della sua mente in superficie
Ancora una volta un flusso linguistico, che segue delle regole tutte particolari, lontane dai raggiungimenti dell’informatica postmoderna di Matrix; ad esempio, l’andamento bustrofedico della scrittura, ovvero l’inversione di senso nel “rigo” successivo per proseguire direttamente il pensiero iniziato nella riga precedente, oppure l’oscillazione delle parole sulla sezione di parete a cui era addossata una panchina, in modo da aggirare le altre persone sedute nella stesso momento in cui lui svolgeva in scrittura ciò che aveva in mente. Quello che è venuto a crearsi è un nuovo mondo, intagliato e sedimentato sulla superficie di un muro che per Nannetti era il limite invalicabile del proprio spazio quotidiano. L’autore ha così popolato di sé l’ambiente con il quale aveva smesso di comunicare a voce; ancora una volta, una realtà che sgorga e si mostra in tutta la propria vitalità e fluidità.