Apologia di Socrate: il vero sapiente tra libertà e dignità

Apologia di Socrate: il testo di Platone ha ispirato questo dipinto del pittore belga L. J. Lebrun

Il dipinto "Processo a Socrate" del pittore belga L. J. Lebrun (XIX secolo) ritrae l'atteggiamento del filosofo per come emerge nella "Apologia di Socrate" di Platone.

Della morte del filosofo greco Socrate, ingiustamente condannato dagli Ateniesi per empietà e corruzione dei giovani nel 399 a.C., esiste un’iconografia ricchissima. Meno comune, invece, è la raffigurazione del processo che portò alla sua condanna. Il mezzo più efficace per farsene un’idea è probabilmente la lettura dell’Apologia di Socrate. Ovvero il celeberrimo resoconto della difesa scritto dal più famoso dei suoi discepoli: il filosofo Platone. Da questo resoconto la figura di Socrate che emerge è titanica: un sapiente integerrimo, disposto a difendersi ma non a infangarsi per scampare alla morte.

Uno degli aspetti più interessanti dell’Apologia di Socrate è ciò che resta fuori da essa. Ossia le voci e gli atteggiamenti degli accusatori, dei convenuti, dei giudici, del magistrato che presiede l’udienza. Il testo di Platone è un monologo difensivo nel quale Socrate s’impegna in quello che a un comune mortale risulterebbe il compito più arduo. Cioè rendere conto di sé. Gli effetti sull’uditorio di questo esame anatomico di un’esistenza individuale particolarissima restano fuori dal nostro campo visivo. Eppure, dopo aver letto questo straordinario racconto, non è difficile immaginare le reazioni di coloro che hanno assistito al processo. E che hanno ascoltato la difesa e l’ammenda proposta dal filosofo – nel suo stile ironico e integerrimo – per i crimini di cui è giudicato colpevole.




Dopo i due discorsi di Socrate – uno per perorare la propria assoluzione, l’altro, dopo la condanna, per stabilire la pena –, il Tribunale di Atene è in tumulto.

I cittadini accorsi al processo gridano: i più si scagliano contro l’arroganza dell’accusato, ma alcuni ne sostengono le ragioni. I giudici osservano sdegnati l’imputato davanti a loro: anche quelli che erano stati propensi ad assolverlo ora lo osservano torvi. In un angolo, gli accusatori gongolano. Sono il poeta Meleto, in cerca di celebrità, il retore Licone e il politico Anito: si godono una vittoria che costerà loro carissima. Gli Ateniesi infatti, pentitisi tardivamente di questo processo, tra non molto li prenderanno in odio. Ma ora, dalla parte opposta, i discepoli del filosofo si disperano. Il ricco Critone ha sprofondato la testa canuta tra le mani. Critobulo e Apollodoro sono sull’orlo delle lacrime. E il giovane Platone, accanto al fratello Adimanto, trattiene il fiato serrando i pugni fino a farsi sbiancare le nocche. Con le sue parole e il suo atteggiamento, Socrate si è appena guadagnato una condanna a morte.

Che cosa ha detto, che cosa ha fatto di tanto scandaloso il filosofo nella propria difesa?

Come precisato nell’Apologia di Socrate, all’epoca del processo egli ha all’incirca settant’anni. Può non temere per la propria vita, che ormai giunge comunque fisiologicamente al termine, ma ci si aspetterebbe che l’amore per la famiglia lo freni. Socrate, infatti, ha una moglie, Santippe, e tre figli: Lampsaco, Sofronisco e Menesseno – quest’ultimo così piccolo che ancora non cammina. Per molto meno del rischio di una condanna a morte, altri imputati si sono gettati in ginocchio piangendo davanti alla giuria. Per molto meno, altri uomini hanno esibito i figli in lacrime e le mogli che si strappavano i capelli. Ma Socrate non è quel genere di uomo: un simile comportamento lo disgusta. Del resto ai giudici, dopo la condanna, lo ha detto chiaramente:

Forse pensate, o cittadini ateniesi, che io sia stato colto sprovvisto di argomenti per persuadervi e scampare alla condanna a morte. Non è proprio così. Non mi mancano gli argomenti, ma la sfacciataggine. Infatti, non ho voluto dirvi le cose che vi sareste voluti sentir dire, magari mentre piangevo e mi comportavo in modo indegno di me. Come fanno in genere gli altri imputati. Io né prima ho creduto di dover fare qualcosa di meschino per difendermi dal pericolo, né ora mi pento di essermi difeso così. Preferisco senza dubbio morire per essermi difeso in questo modo al vivere per essermi difeso indecorosamente.

[Apologia di Socrate, 38 D – E]

Socrate ha pronunciato discorsi semplici e privi di ornamenti, argomentando la propria innocenza in modo misurato e razionale anziché provare a suscitare pietà. Si è difeso in questo modo perché crede nella giustizia. Perché ritiene, cioè, che essa possa venire solo dal dialogo con la ragione di chi giudica, non dal tentativo di manipolarne l’emotività. Così, nella sua difesa il filosofo ha offerto agli Ateniesi un’ultima, grande lezione di libertà e rispetto di sé. Ricordando loro che, prima ancora della propria vita, va preservata la propria dignità.

È una lezione caustica per l’amor proprio dei concittadini, già ferito dalle pesanti conseguenze della recente sconfitta ad opera di Sparta nella Guerra del Peloponneso. Nel 399 a.C., è una democrazia appena liberatasi dall’oligarchia imposta dai vincitori ma già in ginocchio quella cui Socrate si rivolge. Atene è una città in pugno ai faccendieri della politica, ossessionata dalla ricerca del profitto. In questo contesto, secondo il filosofo, gli uomini liberi non si curano di ciò che è più importante, cioè di vivere degnamente. Riducendosi, così, a condurre un’esistenza da schiavi, disposti a tutto pur di rimanere a galla.

È contro questo modo di vivere che il famosissimo passo della difesa del filosofo «Una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissuta» (Apologia di Socrate, 38 A) rivolge la propria critica.

Queste parole, infatti, significano anzitutto che, per Socrate, primo dovere dell’essere umano verso sé stesso è il prendersi cura della propria anima praticando la filosofia. Cioè imparare a vivere padroneggiando la capacità di mettere costantemente alla prova le proprie scelte, azioni e convinzioni per ricercarne e saggiarne la consistenza etica. Esse, però, significano anche che il sapere maturato attraverso questa pratica trasforma l’esistenza, il modo di stare al mondo di chi vi si esercita. È un sapere irreversibile: una volta che ci s’incammina lungo il suo percorso – se lo si fa con convinzione – è pressoché impossibile tornare indietro. Esso vincola saldamente alla coerenza tra ciò che si sostiene e il proprio comportamento. Al punto di rendere preferibile il vivere con dignità al sopravvivere con ogni mezzo.

La difesa di Socrate risulta scandalosa perché durante il processo il filosofo legittimamente si pone come esempio di uomo libero. Com’è stato, del resto, in tutta la propria vita ad Atene. Libero perché coerente con sé stesso, coi principi che propugna. Libero perché, in virtù del suo sapere, egli è in possesso di una dignità inalienabile che scaturisce direttamente dal suo modo di vivere.

A buon diritto Socrate afferma di essere un “dono del Dio alla città” (Apologia di Socrate, 30 E) . Per scelta e per vocazione, infatti, ha vissuto vigilando sui concittadini, spronandoli a vivere in modo più retto, più coraggioso, più felice. Quando afferma di meritare non una pena ma di essere mantenuto a pubbliche spese nel Pritaneo in quanto benemerito, egli non lancia una provocazione. Non sta irridendo, contrariamente a quanto questi credono adirandosi, gli Ateniesi. Sta raccontando davvero una vita spesa al servizio della città. Lo svolgimento instancabile del compito che, secondo il filosofo, lo stesso Dio che sa scrutare i destini degli uomini gli aveva assegnato. Quello di promuovere una certa “sapienza umana”, la sola che conti davvero, edificata a partire dal monito delfico «Conosci te stesso».

«Conosci te stesso» per un greco era anzitutto una norma di comportamento nel rapporto con gli Dei. Esso, infatti, era scritto all’ingresso dell’oracolo di Apollo a Delfi, a ricordare al consultante la propria condizione di mortale al cospetto di un Dio. Nel pensiero e nella prassi di Socrate, uomo profondamente ma non acriticamente religioso, esso diviene qualcosa di diverso: la misura dell’essere umani.

È un setaccio attraverso il quale far passare ciò che i contemporanei ritenuti sapienti sanno – o credono di sapere. Socrate li mette tutti alla prova: politici, scienziati, sacerdoti, poeti, artigiani. Nessuno supera la prova di un dialogo franco con lui su quelle virtù che ci rendono umani, poiché nessuno se ne occupa. Tutti le danno per scontate. Così, come racconta nella sua difesa,

Nessuno di noi conosceva il bene e il bello. Però, mentre quegli uomini erano convinti di sapere mentre non sapevano, io, come non sapevo, così neppure credevo di sapere. Allora mi è parso di essere più sapiente di loro almeno in questa piccola cosa: ciò che non so, io non ritengo di saperlo. [Apologia di Socrate, 21 D]

È questa, dunque, la vera colpa di Socrate. Egli ha fatto sentire ai contemporanei il morso pungente di un’ignoranza colpevole verso sé stessi.

Possiamo facilmente immaginare che Socrate, condannato a morte, non si scomponga nemmeno quando le guardie lo prendono in custodia. Per un interdetto religioso, infatti, la sua esecuzione potrà avvenire soltanto di lì a un mese: egli la attenderà nel carcere di Atene. Il filosofo si limita a rivolgere ai suoi discepoli sgomenti un cenno di assenso. Va tutto bene. Ci hanno riflettuto insieme a lungo, se lo sono ripetuti molte volte: è meglio subire un’ingiustizia che commetterla.

La straordinaria grandezza del filosofo sta proprio in questo. Non solo, come si evince dall’Apologia di Socrate, egli non ha commesso ingiustizia contro altri. Non ha mai insegnato blasfemie, né tantomeno ha corrotto i giovani: li ha spronati a pensare. Socrate è anche riuscito a non commettere ingiustizia contro sé stesso, rifiutando di scendere a compromessi e umiliarsi per una assoluzione. Per questo, a oltre 2400 anni di distanza, la figura del maestro di Platone risulta ancora così affascinante ed attuale. Socrate rende pensabile una libertà assoluta, radicale: quella di dire il vero su sé stessi e sul mondo circostante senza temerne le conseguenze nefaste. Rende pensabile la possibilità di preferire la dignità e la fedeltà a sé stessi alla sopravvivenza. E ci richiama a una responsabilità che – oggi forse più che mai – non è più rimandabile. Quella di prendersi cura dell’umanità nostra e del mondo in cui viviamo.

 

Valeria Meazza

Exit mobile version