Antropologia razzista: dalle origini controverse alla scienza dell’inclusione

Antropologia razzista

L’antropologia razzista rappresenta una delle fasi più oscure della disciplina. Oggi considerata una scienza dedicata alla comprensione delle culture e delle diversità umane, ha un passato meno nobile, segnato da ideologie di superiorità razziale e politiche oppressive. Le sue origini affondano in un contesto storico legato al colonialismo e ai pregiudizi culturali, quando lo studio delle popolazioni veniva spesso utilizzato per giustificare ideologie di superiorità razziale e politiche oppressive. Per comprendere appieno la portata di questa trasformazione, è fondamentale esaminare le pratiche del passato e riflettere sul percorso di cambiamento che ha portato l’antropologia a diventare una scienza più inclusiva.

Le origini controverse dell’antropologia: il caso di Giuseppe Marro

Nella seconda metà del XIX secolo e nei primi decenni del XX secolo, l’antropologia si sviluppò come disciplina scientifica in un contesto di espansione coloniale. Gli antropologi dell’epoca si concentravano spesso sulla classificazione delle razze umane, utilizzando metodi come l’antropometria, ovvero la misurazione dei corpi per individuare caratteristiche ritenute rappresentative di diverse “razze”. Queste pratiche, che includevano fotografie e calchi corporei, trattavano gli individui di culture non occidentali come oggetti di studio, con un approccio che negava loro dignità e complessità culturale.

Un esempio emblematico è rappresentato dalle teorie di Giuseppe Marro, un antropologo italiano legato al regime fascista. Marro utilizzò l’antropologia per supportare le politiche razziste del fascismo, sviluppando studi che cercavano di dimostrare la superiorità della razza italiana rispetto ad altre. Questo tipo di utilizzo della scienza non era isolato: molti studiosi collaboravano con governi coloniali e autoritari per legittimare la discriminazione e l’esclusione.

Marro, nel 1926, fondò il Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino, una struttura che è ormai chiusa al pubblico da oltre 40 anni. Nel 1938 curò l’allestimento della Sala della Razza e nel 1940 pubblicò il volume “Il primato della razza“, dimostrando chiaramente il suo allineamento ideologico e politico. La sua vicinanza al regime fascista gli facilitò la realizzazione del museo, dove furono esposti reperti come fotografie antropometriche, mummie, scheletri umani e teste mummificate, con una particolare enfasi sugli oggetti provenienti dal contesto egiziano.

Marro abbracciava una visione evoluzionistica della storia umana, secondo cui l’Antico Egitto, l’Antica Grecia e l‘Antica Roma rappresentavano l’apice della civiltà. Al contrario, riteneva che l’Egitto contemporaneo fosse un esempio di decadenza. Elaborò una gerarchia razziologica delle culture mondiali che partiva dai cosiddetti “selvaggi“, passava attraverso stati intermedi e culminava con il presunto trionfo delle civiltà classiche e, infine, della “razza italiana“. Questa prospettiva evidenzia il modo in cui Marro intrecciava le sue teorie scientifiche con una narrativa politica e ideologica a sostegno del fascismo.

L’antropologia come strumento di potere

L’antropologia delle origini era intrinsecamente legata al progetto coloniale. Gli antropologi non solo raccoglievano dati su popolazioni indigene, ma contribuivano anche alla costruzione di narrazioni che presentavano queste culture come “arretrate” o “inferiori” rispetto all’Occidente. Questo approccio non si limitava alle teorie accademiche: aveva conseguenze pratiche, come la giustificazione di politiche di assimilazione forzata, sfruttamento economico e violenza culturale.

Una delle pratiche più emblematiche fu la raccolta e l’esposizione di crani e scheletri umani nei musei occidentali, che venivano utilizzati per avvalorare le teorie di superiorità razziale. Questi oggetti, strappati ai loro contesti culturali, rappresentano una testimonianza tangibile del razzismo scientifico dell’epoca.

La svolta: il relativismo culturale e la critica interna

A partire dalla prima metà del XX secolo, l’antropologia iniziò un processo di profonda trasformazione. Una figura centrale in questo cambiamento fu Franz Boas, spesso considerato il padre dell’antropologia moderna. Boas rifiutò le teorie razziali del suo tempo, sottolineando come le differenze tra le culture fossero il risultato di fattori storici e ambientali piuttosto che biologici. La sua introduzione del concetto di relativismo culturale – l’idea che ogni cultura debba essere compresa nei propri termini, senza giudizi esterni– segnò una svolta fondamentale.

Altri antropologi seguirono questa strada, criticando apertamente il passato della disciplina e impegnandosi per una scienza più etica e rispettosa. L’etnografia, che inizialmente era uno strumento per raccogliere dati utili al colonialismo, venne riformulata come metodo per comprendere le culture dall’interno, attraverso il dialogo e l’interazione.

L’antropologia contemporanea: inclusione e diritti umani

Oggi l’antropologia è profondamente diversa rispetto alle sue origini. La disciplina si è evoluta per diventare un mezzo di denuncia delle diseguaglianze e un veicolo per promuovere inclusione e giustizia sociale. Gli antropologi contemporanei lavorano su temi globali come migrazioni, diritti umani, cambiamento climatico e preservazione culturale, con un approccio che cerca di dare voce alle comunità marginalizzate.

Un esempio significativo è rappresentato dall’impegno per la restituzione di oggetti culturali e resti umani ai loro contesti originari, un processo che cerca di riparare le ingiustizie storiche compiute nel nome della scienza. Inoltre, l’antropologia critica continua a interrogarsi sul proprio passato, cercando di evitare gli errori delle origini.

Imparare dagli errori del passato

Ripercorrere le origini controverse dell’antropologia non significa negare i suoi contributi positivi, ma riconoscere che ogni disciplina scientifica è il prodotto del proprio tempo e delle ideologie che lo attraversano. L’evoluzione dell’antropologia è una testimonianza di come la scienza possa imparare dai propri errori e trasformarsi in uno strumento per il bene comune. Oggi, più che mai, essa rappresenta un ponte tra le culture, un invito al dialogo e una speranza per un mondo più inclusivo.

Eleonora Roberto

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