“Chi Non avere un Dio
non avere una tomba
non avere nulla di fermo
ma solo cose vive che sfuggono –
essere senza ieri
essere senza domani
ed acciecarsi nel nulla –
– aiuto –
per la miseria
che non ha fine –mi parla non sa
che io ho vissuto un’altra vita –
come chi dica
una fiaba
o una parabola santa”
Antonia Pozzi, 10 febbraio settembre 1932
Era il 3 dicembre 1938. Una giovane promessa della poesia italiana, a soli 26 anni, si toglie la vita coi barbiturici. Niente ha placato il crescente dramma esistenziale, l’angoscia, che dominava il suo spirito inquieto. Nel suo biglietto d’addio ai genitori, lei parlava di “disperazione morale”.
Antonia Pozzi cresce tra gli intellettuali, in un ambiente colto e raffinato: l’arte la forma; la letteratura la nutre. Gli anni dell’adolescenza, così teneri e complessi, lasciano un segno indelebile nella sua storia: Antonia, già dedita alla poesia, s’innamora perdutamente. Un amore fatale, mai davvero dimenticato, per il professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi. Un cliché ben conosciuto, quello della studentessa e del professore. Dietro una scorza severa e disciplinata, Antonia scopre un’anima affine: quel professore tanto affezionato ai suoi alunni, è un’amante dell’arte, del sapere, del bello e la ragazza s’infatua della sua cultura più che del suo aspetto fisico. Tuttavia, il padre di Antonia, l’avvocato Roberto Pozzi, non può accettare un’unine tanto sconveniente: per il bene della figlia, Roberto osteggia quel rapporto troppo intenso e precoce. I due amanti vengono separati. Alcune meravigliose liriche della ragazza vedono la luce. Si tratta di scritti maturi e consapevoli, come la poesia “La vita sognata“, dedicata proprio ad Antonio.
Eppure, Antonia non porta rancore. L’amore verso la famiglia è sincero. I suoi scritti sono ricchi di lettere dedicate alla nonna Nena, con cui Antonia, fin da bambina, ha una profonda intesa. Gli insegnamenti appresi dai genitori, dalle zie, dai nonni, sono un bagaglio pesante e indispensabile: Antonia non dimenticherà mai lo spirito religioso di cui la sua famiglia la nutre. Ma la cristianità resta alla porta, non entra mai a fondo nella sua anima.
La vita di città e di lusso, non lasciano su di lei alcuna traccia. Antonia ama la vita di montagna, coriacea e solitaria. Nel 1934, un anno prima della laurea, Antonia scriverà una lettera al suo primo (e forse unico) amore, Antonio Cervi.
[…] Vedi, Antonello: io prima sapevo che c’è tanto male nel mondo, ma così, “a priori”: non l’avevo mai toccato con le mie mani, veduto negli occhi di quelli che credevo fratelli. Ora, io l’ho veduto. E sono rimasta completamente sola, staccata da tutti, per salvare me e gli altri.
Ed ho tanta pietà per tutti.
Ma sai, quanto più vedevo nascere il male, tanto più pensavo: “C’è uno al mondo che non è così. Ed io sono stata sua. E al mondo non c’è che lui, puro. E Dio l’ha donato a me. Ma che cosa importa tutta la vita di deserto, se io ho avuta la grazia del tuo viso, anche per poco?
Un attimo della sua purezza non è come una vita eterna di fronte a noi, poveri impuri?” […]
E’ una lettera ricca di sentimento e di empatia, non solo vero l’uomo, ma verso gli altri. Ecco che quel male del mondo s’insinua nel suo spirito e inizia a logorarla lentamente. Davanti a lei si apre lo scenario del Nazismo e del Fascismo e Antonia s’ammala d’un male incurabile: la pietà.
All’università Antonia entra in contatto con l’élite intellettuale italiana, tra cui il poeta Vittorio Sereni, amico fraterno, con cui intrattiene una cospicua corrispondenza epistolare. Per una ragazza del sua levatura sociale, la vita trascorre più che tranquilla: Antonia viaggia per l’Europa, si versa in numerosi arti e scrive. Scrive costantemente. Ha in progetto un libro sulla storia della Lombardia. Eppure, la sua prima musa resta la poesia. Nel frattempo, diventa un maestra della fotografia: con l’obiettivo Antonia può catturare l’essenza delle cose e delle persone che la circondano, donandogli l’eternità che la natura effimera del tempo non lascia intravedere. I suoi album di fotografie sono delle vere e proprie poesie in immagini.
Eppure, nessuno riesce a cogliere la parvenza, la facciata di cui la ragazza si nutre. Quella normalità che Antonia finge di vivere è solo menzogna. A Vittorio Sereni, nel 1935, scriverà:
Mi convinco sempre di più dell’incompatibilità di poesia e vita, […] vivo ancora di atti che non so tradurre in parole.
Forse – chissà – l’età delle parole è finita per sempre.
Antonia non trova pace. Non riesce ad avere conforto. Certamente le leggi razziali del ’38, che tra l’altro colpirono alcuni dei suoi più cari amici, sono una bastonata al suo spirito sincero. Empatica e sensibile ai limiti della sopportazione, Antonia non può reggere a tanta desolazione e miseria. Una sera del ’38, nel prato antistante all’abbazia di Chiaravalle, Antonia si toglie la vita. Suo padre non parlerà mai di suicidio, troppo sconveniente per l’epoca. Tutte le poesie di Antonia Pozzi erano tutte ancora inedite, chiuse in un cassetto.
Antonia Galise