Di Maurizio Martucci
Iniziarono le famigerate Brigate Neroazzurre: negli anni ’80 un manipolo di ultrà dell’Atalanta si presentò allo Stadio di Verona con lo striscione “Cani Nazisti”, l’affondo contro le omonime Brigate dell’Hellas che (i loro eredi), nell’ultima festa gialloblù, tra (supposta) auto referenziata goliardia e propaganda subliminale hanno rinnovato l’affetto nientedimeno che per Adolf Hitler.
Pochi giorni fa è toccato alla Polonia: ad accendere il preliminare di Champions League tra Legia Varsavia e i kazaki dell’Astana, l’immagine shock in una gigantografia a tutta curva del busto di un soldato tedesco del Terzo Reich con pistola puntata alla testa di un bambino indifeso e l’impietosa scritta ultrà biancorossi (noti plateali scenografie, ma pure per le violenza inscenati a Roma nel 2013): “Durante la Rivolta di Varsavia i tedeschi uccisero 160mila persone. Migliaia di esse erano bambini” (il riferimento alle polemiche per il mancato soccorso dell’Armata Rossa nella rivolta).
L’altro giorno poi, seminando indignazione, è stata la volta della Germania, dei proletari ultrà del St. Pauli di Amburgo (la loro bandiera è il vessillo dei pirati, schierati a favore degli immigrati) che nella sfida alla Dynamo Dresda giocata al Millerntor Stadion hanno esposto un paio di striscioni inneggianti l’operazione tabula rasa nel quadruplice bombardamento di Dresda, uno dei più tragici nella storia: “13 Febbraio 1945, noi festeggiamo 72 anni dalla realizzazione di questo paesaggio da parte degli alleati”.
Curve d’Europa, che succede? Senza scomodare gli storici, non ci vuole mica un sociologo per capire che, tramontate le ideologie del secolo breve (pure Cuba s’è riavvicinata agli USA!), nell’era del nichilismo apolide, del capitalismo imperante e del Dio Consumismo religione civile, più che per reale nostalgismo gli animi dei tifosi più accesi continuino a trovare coagulo ed unità grazie a rivendicazioni, simboli e identità del passato, spingendosi sino ad ergersi presunti Tribunali di Norimberga per catturare visibilità e ribalta mediatica a poco prezzo.
Un collaudato cliché, evidentemente, non ancora tramontato (quello tra curve neonazifasciste contrapposte a neocomuniste), se è vero che continua a funzionare l’aggregazione ideologica sulla scia dei primordiali ultras post-’77, ma che oggi – alla luce dell’ignobile striscione esposto ad Amburgo, 72 anni dopo la fine del secondo conflitto bellico – più che ad un’istintiva partigianeria di facciata ci pone davanti ad una ragionevole domanda: ha senso inneggiare, offendendone la memoria, la distruzione di un’intera città (Dresda), rasa al suolo dai bombardamenti angloamericani, bombardamento che da decenni fa discutere mondo accademico (critico fu pure Gunter Grass, Nobel in Letteratura) e opinione pubblica, al punto che in molti lo ritengono un vero e proprio crimine di guerra? (4.000 tonnellate di bombe sganciate raggiunsero l’85% della città, tanto che lo storico Max Hastings lo ha equiparato ai più efferati delitti del nazionalsocialismo) Ha senso sbeffeggiare migliaia di civili inermi (fonti inglesi parlarono di 130.000) carbonizzati dai micidiali ordigni incendiari al fosforo bianco sganciato dagli aerei Alleati? Ha senso trasformare le odierne curve (molte riconvertite in laboratori di marketing e merchandising a cielo aperto, oltre che a serbatoi utili a rastrellamenti elettorali dell’ultim’ora) in tribunali del popolo, svilendo in beceri e orripilanti slogan vere e proprie tragedie umane che nulla hanno a che vedere col calcio? (e se vogliamo nemmeno con la dialettica ‘amico-nemico’ tipica delle fazioni ultrà) Ma soprattutto (ammesso e non concesso che tra le rivalità da stadio ci sia davvero chi perseveri strategie e finalità apologetiche, non solo meramente simboliche, per ricostituire regimi totalitari, sic!) oggi ha senso dare del comunista, del fascista o del nazista al tifoso dell’altra squadra? Ad un tifoso che magari, dietro l’etichetta di un’urticante striscione esposto nell’anonimato del gruppo solidale, tradisce i suoi 15-25 anni, cresciuti in una consapevole ignoranza sui fatti realmente accaduti nel nostro passato prossimo?
A meno che il senso, alla fine dei conti, non si traduca in un didascalico selfie postato sui social, francamente fatico a vederne uno, più che politicamente, storicamente valido. Soprattutto se valutato e voluto sulla memoria di centinaia di migliaia di morti che non possono rispondere (da qualunque parte provengano, il mio ragionamento non cambia). Più che perbenista buon senso, è semplicemente una questione di rispetto. Perché dalle mie parti, le offese ai morti si chiamano vigliaccata!