Due tsunami di portata enorme potrebbero esser nati nell’antico oceano che ricopriva la maggior parte di alcune pianure settentrionali del pianeta rosso (si parla di circa 3,4 miliardi d’anni fa).
I ricercatori dell’Ames Research Center di proprietà della Nasa e del Planetary Science Institute in Tucson, hanno raccolto prove a favore di tale ipotesi grazie ad una mappatura geomorfologica e termica effettuata sulle regioni nord-occidentali di tali pianure (il tutto unito ad alcune analisi numeriche).
Nell’articolo che ho preso come fonte per scrivere questo, si rimanda ad un altro articolo uscito su “Scientific Reports” ed io qui, a chiunque sia interessato a saperne di più, lo rimando sullo stesso articolo.
Ma cosa dice nello specifico questa ipotesi? Dice su Marte c’era un tempo un oceano, e che questo è inoltre stato anche luogo di diversi tsunami.
Perché affermano questo? Ebbene l’ipotesi è nata a seguito della rilevazione di dati indicanti sia la presenza di una non trascurabile idrosfera (l’insieme delle acque, in qualsiasi stato esse si trovino, presenti all’interno o sulla superficie di un pianeta) di Marte stesso, la quale è intrappolata sotto una coltre molto spessa di permafrost (in geologia, sta ad indicare lo strato di terreno perennemente gelato che si trova nel sottosuolo profondità di qualche metro e non di meno) ghiacciato, ma han rivelato anche dati riguardanti una serie di esplosioni sotterranee legate a fenomeni dovuti da vulcani risalenti a 3,4 miliardi d’anni fa.
Però la mancanza di linee di costa (il confine tra terraferma e mare) sulla superficie del pianeta rosso aveva fatto venire molti dubbi circa l’effettiva esistenza di tale antico oceano sopracitato e quindi anche degli tsunami.
Questa nuova ricerca, però, sembra indicare che queste ipotetiche linee di costa siano state cancellate da due giganteschi tsunami nati grazie all’impatto di grandi meteoriti, i quali avrebbero lasciato due crateri di 30 km circa di diametro. Questi eventi sarebbero succeduti distanziati di qualche milione di anni l’un dall’altro.
Secondo varie simulazioni gli impatti dovrebbero aver alzato onde vicine alle coste alte in una media di 50 metri, tuttavia in alcune località dovrebbero essere arrivate a 120 metri. Questo ha finito per far arrivare acqua anche fino a 5 o 600 chilometri nell’entroterra. Secondo le stime il primo impatto dovrebbe aver creato un’inondazione di 800.000 chilometri quadrati circa, il secondo addirittura si pensa intorno ad un milione di chilometri quadrati d’inondazione.
Alexis P. Rodriguez, il primo autore dell’articolo, ha dichiarato: “Nel periodo di tempo fra i due tsunami il livello dell’oceano si ritirò per formare una costa bassa, mentre il clima diventava significativamente più freddo” e “La prova del cambiamento climatico è riflessa nella morfologia dei depositi degli tsunami. Lo tsunami più antico ha portato con sé enormi quantità di massi e macigni, che quando l’onda ha iniziato a ritirarsi verso il mare hanno scavato canali di riflusso”.
Per quanto riguarda lo tsunami più vicino a noi nel tempo, esso ha creato strutture definite lobate (quindi formate da parti sporgenti e tondeggianti) che riguardano la presenza di masse ghiacciate d’acqua. Parecchi di questi lobi hanno forme definite bene ed i loro flussi non sembrano mostrar tracce di modifiche degne di nota. Per gli autori, queste caratteristiche suggeriscono che gli stessi lobi conservino ancora buona parte dei materiali originali e che quindi ci si possano ricavare informazioni utili per capire l’originaria composizione dell’oceano ipotizzato.
Il coautore dello studio Alberto G. Fairén ha detto: “Nonostante le condizioni climatiche estremamente fredde e secche, gli antichi mari marziani avevano probabilmente una composizione salmastra che ha permesso a queste masse d’acqua di rimanere allo stadio liquido per decine di milioni di anni” aggiungendo “Sulla Terra sono noti vari ambienti acquosi salmastri superraffreddati che sono abitabili da diversi organismi. Di conseguenza, alcuni dei depositi di tsunami potrebbero essere obiettivi privilegiati per futuri studi di astrobiologia”.