Visitando il Museo di Santa Giulia, a Brescia, ci si può stupire di un singolare tipo di reperto: pavimenti romani a mosaico (II-III-IV sec. d.C.) recanti simboli che sono, inequivocabilmente, svastiche. Superato il primo sgomento, o le prime risatine, si può trovare una spiegazione razionale a tutto ciò.
Cominciamo con Sabine Heinz, collaboratrice scientifica presso l’Università Humboldt a Berlino, dove guida la commissione di esperti in celtologia. Nel suo saggio I simboli dei Celti, così parla della famosa triscele, o “triplice vortice”:
“la triscele – come anche la svastica – simboleggia il movimento degli astri, si tratta, cioè, di una ruota solare a tre pale. Entrambi i simboli appaiono molto presto presso i popoli dell’Europa e dell’Asia. Per quanto riguarda i Celti, essi sono riscontrabili al più tardi nel periodo di Latène (III-II secolo).” (I simboli dei Celti, Vicenza 2000, Edizioni Il Punto d’Incontro, p. 237. Traduzione di Gabriella Balzaro).
Per approfondire il significato di questa famiglia di simboli, procediamo ora con un altro salto nel tempo e nello spazio. Dobbiamo arrivare in Grecia e in India, di cui tratta Alain Daniélou nel suo Śiva e Dioniso. La religione della natura e dell’eros (Roma 1980, Astrolabio-Ubaldini. Traduzione di Augusto Menzio). Qui, la svastica è chiamata coi sinonimi di “croce gammata” e “croce uncinata”. Così scrive lo studioso:
“La croce rappresenta l’estensione del mondo partendo da un centro, da un principio unico. La difficoltà di risalire sino al principio è raffigurata dalla croce ‘ritorta’ o gammata. Il non iniziato che segue uno dei suoi rami si perde nello spazio, non arriva mai al centro, alla verità. A un dato momento bisogna saper cambiare strada per raggiungere il principio. Il simbolo di Gaṇeśa, il dio dei Misteri, è la croce gammata. Gaṇeśa è il guardiano della porta che conduce alla dea-serpente arrotolata e del toro o del fallo che essa circonda. Nel corpo umano la parte stretta che porta al centro-terra, alla dea-serpente è l’ano. Lì si trova il centro di Gaṇeśa, il guardiano delle porte e dei misteri, servo della dea.
Al di là c’è il labirinto delle viscere, quelle vie tortuose che portano a tutti gli organi vitali e che gli àuguri consultano durante il sacrificio. Lo yogi che perviene a risvegliare l’energia avvoltolata e a raggiungere l’uno dopo l’altro, col suo ausilio, i centri in cui risiedono le forme superiori della vita e le facoltà sottili che lo renderanno un ‘eroe’ (vīra), padrone di tutte le energie latenti in lui e fuori di lui, e gli permetteranno di dominare le forze oscure della natura elementare per attingere l’intelligenza e la luce divina, deve attraversare il labirinto interiore la cui forma fisica è il dedalo intestinale dove si nascondono i differenti centri sottili.” (p. 110).
In altre parole, la svastica affonda le radici nella pratica dello yoga: la ricerca di risveglio delle energie nascoste dentro l’essere umano. La “dea serpente” è la Kuṇḍalinī, ovvero la principale delle suddette energie, collocata alla base della colonna vertebrale (fra ano e genitali). È il “centro di base” dell’essere umano,
“che possiamo considerare come la dea Terra da cui tutto ha avuto origine.” (p. 109).
La svastica rappresenta lo sforzo umano per arrivare a questo centro. Daniélou considera questo simbolo come imparentato con il Labirinto che ha reso famosa Creta (cfr. p. 112). Del resto, il Minotauro è di natura taurina e il toro è una delle forme di Śiva (cfr. p. 101): dio dal cui culto preistorico nacque lo yoga (cfr. p. 130).
Per tornare ai nostri mosaici pavimentali, essi testimoniano dunque il vivo sincretismo culturale dell’Impero romano. Forse, gli eleganti signori che li avevano commissionati non conoscevano i segreti della svastica; ma erano in grado di percepirla come gradevole e benaugurante. Per ragioni fin troppo note, oggi non è più possibile accostarla con quello spirito. Ma la porta della comprensione è sempre aperta, per chi vuole varcarla.
Erica Gazzoldi