Antibiotici e allevamenti intensivi. Fine di un’era?

Il 71% degli antibiotici venduti in Italia è destinato agli animali da allevamento. I dati diffusi da Legambiente dimostrano la correlazione tra gli allevamenti intensivi e l’aumento della resistenza agli antibiotici dell’organismo umano

animali da allevamento
Il Fatto Alimentare

Se siete in una di quelle fasi esistenziali in cui siete incerti se proseguire nelle pratiche onnivore o dedicarvi a un’alimentazione decisamente veg, allora questo scritto è al caso vostro. E probabilmente non vi farà più toccare neanche una coscia di pollo o un hamburger. Ogni anno, il 71% degli antibiotici venduti in Italia viene somministrato agli animali da macello. Ogni anno, due volte su tre mangiamo farmaci formato filetto fumante.

Cifre da record, o quantomeno da terzo posto nella classifica europea del consumo di antibiotici destinati agli animali. Siamo esattamente dopo Spagna e Cipro. La Francia ne consuma tre volte meno, il Regno Unito addirittura cinque. C’è da star tranquilli? Niente affatto, perché altre cifre, che aumentano contestualmente, iniziano a preoccupare. Sono i morti per resistenza agli antibiotici, che si aggirano tra i 5 e i 7 mila casi. Che in Italia “zootecnica” faccia il paio con “antibiotico” non è una novità, tutt’altro. E’ una prassi talmente abusata indiscriminatamente da richiedere interventi urgenti.

I dati, forniti da ECDC (European Centre for Disease Prevention and Control), EFSA (European Food Safety Authority) and EMA (European Medicines Agency) e SIMIT (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali), sono la cartina al tornasole di un settore che, pur non conoscendo una grossa crisi – parliamo di 800 milioni di animali macellati per soddisfare il consumo di 60 milioni di persone – , inizia a scricchiolare di fronte all’allarmante antibiotico resistenza di cui è in buona parte responsabile. Su Greenreport si entra in dettagli più significativi, “le vacche da latte sono circa 2 milioni; il settore avicolo macella più di mezzo miliardo di animali all’anno. Le vacche sono in stragrande maggioranza a “pascolo zero” e soltanto per le galline ovaiole sono previste alternative al sistema delle gabbie”.

Le pessime condizioni in cui versano gli animali negli allevamenti, dove vivono al limite delle proprie possibilità fisiologiche e con un sistema immunitario indebolito, fanno sì che gli antibiotici vengano somministrati agli animali malati e a quelli sani indistintamente (per evitare che si ammalino). E’ a causa di queste proteine animali presenti nella nostra tavola, che sempre più classi di antibiotici non hanno più alcun effetto sull’organismo umano. Anche per tale motivo, è stato firmato due giorni fa il protocollo d’intesa tra Legambiente e la ong internazionale  CIWF (Compassion In World Farming), da sempre in primo piano per la tutela degli animali negli allevamenti.

Il principio che è sempre sfuggito alla zootecnia italiana, votata quasi tutta all’allevamento intensivo e priva di normative specifiche a favore del benessere animale, è che una migliore qualità del cibo – e di conseguenza della nostra salute – passa proprio dal buono stato di salute psicofisica di polli, bovini e ogni altro capo destinato alla macellazione. E del resto la Fao riconosce il benessere animale come elemento fondamentale per un buono sviluppo del settore zootecnico. Si tratta di un principio destinato a diventare sempre più centrale nell’agenda politica italiana, come dimostrato dalla conferenza nazionale sul benessere animale che il Ministero della salute ha organizzato la scorsa estate a Roma. Ora, il protocollo siglato da Rossella Muroni (Legambiente), Philip Lymbery (CIWF International) e Annamaria Pisapia (CIWF Italia) chiede che tutte le richieste avanzate dalle associazioni partecipanti alla conferenza di Roma, vengano inserite nel Piano triennale per il benessere animale, la cui realizzazione è prevista per dicembre prossimo.

Dall’incontro che si è da poco concluso, è emersa la chiara necessità di un cambio di prospettiva: dagli allevamenti intensivi bisogna passare a quelli estensivi, con particolare riguardo al biologico. Non si può parlare di sana alimentazione, benessere animale e sostenibilità ambientale in maniera distinta e separata, perché un concetto è propedeutico all’altro. Per arrivarci occorre la necessaria sensibilizzazione e formazione orientata alle scuole e non solo. Anche le aule parlamentari non saranno risparmiate, in modo da acquisire le giuste competenze per adottare provvedimenti legislativi a tutela degli animali da allevamento. Le due associazioni firmatarie dell’intesa hanno un programma chiaro e specifico, per il prossimo triennio: oltre alla sensibilizzazione di scuole e istituzioni, infatti, si punta alla costruzione di un report nazionale degli allevamenti intensivi in Italia, una più rigorosa definizione giuridica degli stessi e da ultimo – ma non meno importante – a un innalzamento dei parametri di benessere animale, oltre a una misurabilità ambientale, sanitaria e sociale dell’allevamento industriale.

Insomma, in attesa di tempi migliori, la prospettiva veg inizia ad assumere i contorni di una scelta dettata più dall’amor proprio che da motivi puramente etici.

Alessandra Maria

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