Sfatiamo il mito dell’annegamento a secco

annegamento

L’anno scorso un bambino americano di quattro anni, Frankie Delgado, era in vacanza con la sua famiglia, stava giocando in acque basse quando fu travolto da un’onda, i genitori raccontano che dopo l’incidente sembrava essersi ripreso ma purtroppo una settimana dopo morì. La stampa si scatenò sulla vicenda spiegandolo come un caso di annegamento a secco. Peccato che questo termine non abbia nessun significato medico, quindi appena un mese dopo la vicenda due medici esperti in medicina di emergenza (Justin Sempsrott e Seth Hawkins) e un assistente professore del Dipartimento di medicina di emergenza dell’Università della Florida (Andrew Schmidt) pubblicarono un articolo intitolato Affogando in un mare di disinformazione, non si può dire che ci andarono leggeri, almeno nel titolo, l’articolo è un manuale per i soccorritori di vittime di annegamento, eppure non deve essere servito a molto perché il fantomatico annegamento a secco impazza ancora sui media, tanto che i tre medici sono stati spinti a scrivere un nuovo articolo pubblicato pochi giorni or sono intitolato The Myth of Dry Drowning Remains at Large (Il mito dell’annegamento a secco rimane in libertà).
Riporto questi articoli perché leggendoli ho imparato tante cose che non sapevo sull’annegamento che ho trovato davvero interessanti.
Innanzitutto una premessa, per annegamento a secco prima di indicare casi come quello del piccolo Frankie si indicava il fatto che in una piccola percentuale di vittime di annegamento non veniva trovata acqua nei polmoni perché nelle prime fasi dell’annegamento l’epiglottide si era chiusa (spasmo) per proteggere le vie respiratorie dall’acqua, impedendo però così anche il passaggio dell’ossigeno. Nel caso di morti ritardate rispetto all’episodio di annegamento si era soliti parlare di annegamento secondario, ma i tre medici contestano la validità e l’utilità anche di questa classificazione proponendone un’altra che tra poco andrò a illustrare.




Ma prima chiariamo una cosa, il piccolo Frankie non è affatto morto di annegamento e non è possibile che una persona asintomatica dopo l’annegamento muoia per un deterioramento postumo a distanza di una settimana, il povero bambino è morto per una miocardite ricorrente (un’infiammazione del muscolo cardiaco).
Seconda premessa: avete mai riflettuto sulla curiosa circostanza per cui noi parliamo di annegamento solo nel caso in cui una persona muoia o altrimenti parliamo di quasi annegamento? Con notevole arguzia i medici fanno notare che una tale classificazione non va bene in termini scientifici, sarebbe come dire che se una persona ha avuto un infarto (o un ictus) ed è sopravvissuta quello era un quasi infarto, no era un infarto a cui il paziente è sopravvissuto. Lo stesso deve valere per l’evento annegamento, esistono annegamenti leggeri, severi e questi ultimi possono avere o non avere esito fatale.
Guardate che non è semantica perché se da un lato l’intento dei medici è dire non si muore dopo una settimana (o anche tre giorni) da un annegamento se davvero stavi bene, dall’altro è: se avete sintomi fatevi controllare. Se avete avuto un episodio di annegamento (o state assistendo una persona che l’ha avuto) e lamentate sintomi più severi e prolungati di quelli di un bicchiere d’acqua che vi è andato di traverso a tavola dovreste farvi controllare, se avete tosse prolungata per più di pochi minuti dovreste farvi controllare. Non parliamo poi se mostrate di essere in uno stato confusionario. L’articolo poi dà anche delle linee guida per interventi da parte del personale specializzato, quindi li accenno solo sommariamente, quello che più mi preme di questa parte è far capire che il problema nell’annegamento non è la quantità d’acqua che entra nei polmoni che è minima, ma che non arriva più ossigeno al cervello, è l’ipossia che uccide, non la piccola quantità d’acqua nei polmoni. Infatti i medici individuano tre situazioni di crescente gravità: paziente sveglio e vigile, con vie respiratorie libere e senza fuoriuscita di fluidi; paziente sveglio e vigile, con difficoltà respiratorie e minima quantità di fluido dalle vie respiratorie; stato mentale alterato, insufficienza respiratoria grave o blocco della respirazione e grande quantità di fluido. Gli interventi variano dalla cannula per l’ossigeno nel primo caso a interventi sempre più invasivi, fino alla intubazione endotracheale (da predisporre fin da subito nel terzo caso).




Forse più interessanti per il pubblico non specialistico le raccomandazioni su come il medico di medicina di emergenza si dovrebbe comportare con pazienti che hanno subito un annegamento, quando dimetterli, quando tenerli in osservazione in un letto d’ospedale e quando in terapia intensiva? In pratica viene consigliato di mandare a casa se il paziente mostra processi mentali normali, non mostra continua dispnea o tachicardia quattro ore dopo che gli è stato tolto l’ossigeno e abbia una famiglia o comunque una struttura di supporto sociale, in pratica che non viva da solo in modo che gli sta attorno possa accorgersi di un peggioramento dei sintomi.
A costo di essere ripetitivo aggiungo che non c’è in letteratura medica un solo caso di persona dimessa perché giudicata senza sintomi da esame medico che sia poi morta di tardivo deterioramento delle condizioni in seguito a un annegamento, si possono avere sintomi lievi che nel giro di poche ore miglioreranno o peggioreranno, se una persona (e i medici) non sottovalutano i sintomi e tengono in osservazione per quelle poche ore per vedere l’evoluzione nessuno morirà del fantomatico annegamento a secco,

Roberto Todini

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