L’artista Anish Kapoor lancia una chiamata alle armi per combattere le politiche museali pro forma. Gli artisti non occidentali sono sotto-rappresentati o etichettati in base al proprio background culturale.
Dal mondo dell’arte contemporanea si erge un nuovo grido di protesta. L’artista Anish Kapoor imposta delle accuse fin troppo solide nei confronti delle istituzioni museali euro-americane. La colpa? Rappresentare in maniera superficiale gli artisti non occidentali, in molti casi meramente sfruttati come facili occasioni pubblicitarie.
Una nuova voce si aggiunge quindi al coro di rivendicazioni nate in grembo al movimento Black Lives Matter, che non ha certo risparmiato i grandi musei d’arte. Oggi il dito accusatorio di Anish Kapoor si rivolge verso i pesi massimi del sistema, tra cui il Museum Of Modern Art di New York, la Tate Modern di Londra e il Centre Pompidou di Parigi.
Basta con le etichette
Una chiamata alle armi rivolta a tutti gli artisti contemporanei. Così Anish Kapoor definisce la breve ma efficace invettiva pubblicata su Artnet pochi giorni fa. L’artista denuncia un atteggiamento sfortunatamente molto diffuso nel sistema artistico contemporaneo, una tendenza che – oggi più che mai – non è assolutamente condonabile.
Ora, alla luce di Black Lives Matter, dobbiamo stabilire che non permetteremo più a questi bigotti Neocolonialisti dalla mentalità limitata di determinare la nostra individualità creativa in base al nostro luogo di origine, colore della pelle o genere.
Anish Kapoor non è estraneo alla questione. Nel corso della sua lunga e fortunata carriera, si è spesso trovato a combattere contro l’umiliazione di essere definito “un artista indiano”. Questa etichetta non solo semplifica terribilmente la complessità delle sue origini, ma lega anche a doppio filo la sua forza creativa con un certo background culturale. Tendenza, questa, che non sembra applicarsi agli artisti di origine europea o americana.
I musei e le gallerie d’arte giocano un ruolo fondamentale in questa dinamica. Una tendenza preoccupante e molto diffusa resta infatti quella del cosiddetto tokenism, ossia il reclutamento “pro forma” di un piccolo gruppo di artisti appartenenti a una minoranza sotto-rappresentata. Si tratta di uno sforzo superficiale e del tutto simbolico, che non rappresenta adeguatamente le potenzialità degli artisti coinvolti e risponde a una mera questione d’immagine.
In particolare, l’artista si esprime molto duramente nei confronti del MoMA di New York. La recente riapertura del museo, datata ottobre 2019 e costata circa 450 milioni di dollari, era appunto mirata a riequilibrare il sistema di rappresentazione. Un’operazione fallimentare, secondo Anish Kapoor. Infatti, mentre al piano terra sono ammassate opere di artisti provenienti da tutto il mondo, il “maschio e bianco” Richard Serra continua a godere del privilegio di una sala personale.
Niente di nuovo sul fronte occidentale
La polemica sollevata da Anish Kapoor colpisce al cuore un problema di lunga data. La questione della rappresentazione degli artisti non occidentali è oggetto di dibattito da molto tempo, e ha coinvolto tanto i musei e le gallerie d’arte quanto le grandi biennali internazionali.
Il presupposto di partenza è che ogni interpretazione debba partire da un punto di vista, e che ogni punto di vista sia necessariamente parziale. Per molto tempo, in campo artistico e non solo, l’unico punto di vista ammissibile è stato quello occidentale. Questo in molti casi ha prodotto una visione inaccurata, superficiale o addirittura stereotipica delle produzioni artistiche non occidentali. Oggi, nel mondo cosmopolita e transnazionale che abitiamo, un approccio simile non è pensabile. Anzi, è da combattere apertamente.
La divisione tradizione tra arte occidentale e non è stata sopraffatta da un’altra realtà, nella quale la posizione centrale dell’arte occidentale è stata rimpiazzata da un mosaico di centri locali con aspirazioni internazionali.
Lejo Schenk e Meta Knol, direttori museali
Anish Kapoor non è solo sul campo di battaglia. Molti artisti concordano con la sua visione e hanno, nel corso del tempo, portato avanti discorsi critici votati a minare le manie di protagonismo euro-americane.
Uno di questi è Rasheed Araeen, pittore e critico d’arte britannico originario di Karachi, Pakistan. A partire dagli anni ’70, Araeen ha sempre lottato per restituire voce agli artisti africani, latino-americani e asiatici nelle istituzioni britanniche. Al contempo ha portato avanti la sua crociata personale, rivendicando a gran voce una corretta interpretazione del proprio lavoro. Le sue opere, che si inseriscono a pieno titolo nel solco del movimento minimalista, sono state spesso – arbitrariamente ed erroneamente – associate dalla critica all’iconoclastia islamica.
Suggerimenti per il futuro
La questione posta da Anish Kapoor lascia spazio a molte domande. Come possono i musei occidentali evitare di cadere nel baratro del tokenism ? Cosa significa rappresentare adeguatamente un artista? Come possiamo giungere a una visione accurata e non parziale? E ancora, in che direzione dovranno muoversi i musei nel futuro?
Secondo l’artista, una possibile soluzione sarebbe evitare di selezionare le opere in base alla fama e al nome dell’autore. E’ necessario aprire un dibattito e ragionare collettivamente sul tema, ponendo così le basi per una nuova politica museale. Nel frattempo, però, niente più “gettoni-presenza” per gli artisti non occidentali.
Carlotta Biffi