Andare in bagno quando si è a lavoro è una necessità e un diritto. Ma non sempre questo viene garantito, causando gravi disagi e umiliazioni.
“Voglio il nome di chi ha il ciclo”, scoppia la polemica
I casi di lavoratori che non hanno il permesso di utilizzare il bagno sono, purtroppo, frequenti.
Nel 2017, l’azienda Sevel di Atessa (il più grande impianto europeo per l’assemblaggio di veicoli commerciali europei) fu condannata a risarcire un operaio al quale aveva impedito di utilizzare il bagno.
Il dipendente aveva chiesto più volte il permesso di allontanarsi per pochi minuti, senza però ottenerlo. Era quindi stato costretto a urinarsi addosso, finendo per lavorare per ore con i pantaloni bagnati.
Negli ultimi mesi, il tema è tornato a far discutere a seguito di un grave episodio in un supermercato di Pescara, verso la fine di Aprile.
Voglio il nome e cognome di chi oggi ha il ciclo mestruale, ok? Sennò gli calo le mutande io
Queste sono le parole della dirigente del supermercato, furiosa dopo aver trovato un assorbente usato fuori dal cestino nella toilette.
Il nome della dipendente non è mai venuto fuori, e i sindacati sono subito intervenuti nella vicenda.
Si tratta dell’ennesimo caso di vessazioni e soprusi nei confronti di lavoratrici e lavoratori del commercio che la Filcams Cgil vuole denunciare
In seguito, si sono moltiplicate le testimonianze di minacce e oppressioni verso i dipendenti di diversi posti di lavoro.
Quando andare in bagno è un divieto
Gran parte di questi racconti sono stati raccolti dalla pagina Instagram Aestetica Sovietica, in collaborazione con L’Espresso.
Un esempio è la testimonianza di Stefania, dipendente di un negozio di intimo.
Non c’erano i servizi all’interno. Dovevo uscire per raggiungere la toilette pubblica, dall’altra parte della stazione.
Non bevevo tè a colazione, pochissima acqua durante il giorno. In modo da non dover lasciare il negozio incustodito per andare in bagno.
A volte mi è capitato di fare la pipì nel secchio che utilizzavamo per lavare i pavimenti, chiudendomi nello sgabuzzino solo per qualche secondo.
La situazione è particolarmente grave nei call center, dove i tempi sono difficili da gestire.
Nei call center, poiché hai un tempo massimo per rispondere a chiamate o messaggi, puoi passare ore e ore senza andare in bagno.
Avevo colleghe con il ciclo che lavoravano sedute su asciugamani per non sporcare le sedie.
Stessa situazione per Roberta, che ha lavorato in un chiosco durante l’estate.
Per più di 10 ore non ha potuto utilizzare il bagno per cambiare assorbente, contraendo una forte irritazione cutanea.
Un’altra testimonianza è quella di Francesca, cassiera in un negozio.
Una volta ho chiamato la responsabile chiedendole di sostituirmi, giusto il tempo di fare la pipì. Lei ha risposto, ad alta voce, davanti ai clienti in coda alla cassa: “avresti dovuto pensarci durante la pausa. O hai problemi di incontinenza?”. Mi ha umiliata
Cosa dice la legge?
Il professor Raffaele Fabozzi, insegnante di Diritto del Lavoro all’Università LUISS, ha spiegato come la legge tuteli la salute e il benessere dei lavoratori.
Oltre agli obblighi e alle pause previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva, proprio come in ogni contratto, anche in quello di lavoro le parti devono comportarsi secondo correttezza e buona fede.
Il datore di lavoro è obbligato a tutelare la salute dei propri lavoratori, adottando le misure necessarie a salvaguardare l’integrità fisica e personalità morale degli stessi.
La legge sull’orario del lavoro prevede il diritto a una pausa non inferiore a 10 minuti durante un turno di 6 ore.
Se invece il lavoro si svolge di fronte a un monitor, il dipendente ha diritto a una pausa di 15 minuti ogni 2 ore di permanenza allo schermo.
Tuttavia, la legge consente che i dipendenti utilizzino questi minuti per altre attività lavorative, purché non di fronte a un monitor.
Il datore di lavoro gestisce la durata e la modalità delle pause ma, in caso di emergenza, questo non può vietare al dipendente di utilizzare il bagno.
Al contrario, l’azienda sarebbe accusata di “pregiudizio dell’integrità psicofisica“.
Inoltre, il datore di lavoro non può richiedere un’autorizzazione scritta per andare in bagno, in quanto rappresenterebbe una violazione della privacy.
Può, però, chiedere al dipendente di timbrare il cartellino. Ma solo dopo aver ottenuto l’autorizzazione dei sindacati o dell’Ispettorato del lavoro.
Un datore di lavoro, naturalmente, deve pensare al profitto dell’azienda.
Ma, ancora prima, deve pensare alla salute e al benessere psicofisico delle persone che lavorano per lui.
Vietare ai dipendenti di utilizzare il bagno, umiliarli, costringerli a lavorare in situazioni imbarazzanti e dolorose, va contro la dignità umana e non può essere tollerato.