Ancora una volta, la violenza. Ancora una volta, basta

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Erano in 30. O forse erano in 29. O forse erano in 33. E Lei era Lei. I numeri non fanno la differenza. La differenza la fanno i fatti, soprattutto quando sono tragici e disumani. Stuprata a turno, durante una notte interminabile, nella periferia di Rio de Janeiro dove, tra qualche settimana, si terranno le olimpiadi.

Dopo uno di quei concerti durante i quali ci si ricorda di avere 16 anni e attraverso i quali li si celebra, a ritmo di una musica che, ci si illude, possa non conoscere la fine. E invece la fine arriva. I riflettori si spengono, i microfoni si staccano, i sipari calano e le piazze si svuotano. E resta solo il ricordo di momenti che saranno gli ultimi ad essere ricordati: perché quello che è accaduto dopo, è spinto giù, soffocato, schiacciato contro un asfalto che sembra non distinguersi dal cielo. Perché tutto ha perso la sua forma, la sua sostanza, il suo colore e il suo profumo. E non c’è nulla da raccontare, nulla da chiarire, nulla da precisare. La violenza non si serve di concetti: essa semplicemente, drammaticamente, fa uso della forza e annulla, uccide, devasta e spegne tutto quello che incontra, tutto quello che ha la sfortuna di ritrovarsela dinanzi.

Non era Una. Era Lei.

E continua ad esserlo ora, nei momenti, nei giorni in cui bisogna rimettersi in piedi, recuperare se stessa e stringere forte il desiderio di non morire. Di non morire, almeno questo. Perché vivere diventa una parola grossa, un’azione complicata. Non morire. Almeno questo, sì.

Perché non sei morta mentre il mondo ti si rivoltava contro attraverso uomini senza umanità, non sei morta quando sul web è stata diffusa la tua tragedia con un video di cui tanti hanno richiesto la versione integrale come se fosse un film tanto atteso, non sei morta quando tra i commenti a quel video, non sono mancati quelli diabolici, quelli sadici, quelli in cui sei stata considerata consenziente o colpevole di quello che ti stava accadendo. Non sei morta. E questo è una prova del fatto che non devi morire.

Forse, in quel momento, ti sei chiesta dove eravamo tutti, dov’era finito il tuo mondo. Probabilmente in una casa universitaria qualcuno brindava, in una stanza da letto qualcuno stava facendo l’amore, un papà cantava la ninna nanna alla sua bambina e su uno scoglio una poetessa dava alla luce il suo primo scritto. Già, dove eravamo tutti. Stavamo vivendo la vita, stavamo facendo le semplici cose che ci aiutano a proseguire, nonostante tutto. Quelle semplici cose che non servono a dimenticare che da qualche parte nel mondo qualcuno sta soffrendo, ma servono a credere che bisogna andare avanti, anche per chi, come Te, quella sera stava soffrendo. E che possono servire affinché non accada più.

Semplici cose perché semplici siamo noi. E nella nostra semplicità pronunciamo ancora, e ancora lo faremo, parole che condannano ogni tipo di violenza e che richiamano l’attenzione e l’impegno nei confronti di una Cultura del Rispetto che contrasti quella dello stupro, della sopraffazione e della violenza. Con la stessa semplicità con la quale, d’altra parte, corriamo su Marte per verificare se lì c’è vita mentre sulla Terra si semina la morte. Nella nostra semplicità, quella con cui speriamo. E con la quale restiamo in silenzio. Davanti a Te e davanti ad ogni Anima offesa e ferita.

 

Deborah Biasco

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