Isoardi e Salvini: selfie ergo sum. Il post della nota conduttrice televisiva è solo uno spunto per una riflessione più ampia.
Il diritto ad esistere e ad essere riconosciuti come soggetti meritevoli di attenzione passa per il selfie. Non una semplice immagine, una foto o ricordo. Il selfie è qualcosa di più, è l’istantanea di un momento apparentemente naturale o casuale, ma che invece rappresenta la massima espressione dell’artificio, appositamente filtrata per passare attraverso i social. E così la nostra vita è misurata dai like, scansionata dai commenti e prolungata dalle condivisioni, quasi come una pozione per l’immortalità.
A ben pensarci un artificio quasi schizofrenico, che rende difficile capire dove finisce la finzione e comincia la realtà.
Pirandello avrebbe detto “così è se vi pare“. Ma in realtà cosa davvero appare? E cosa veramente è?
Il dibattito sulla sovraesposizione mediatica, in particolare dei personaggi pubblici, ancor più se ricoprono determinate cariche come quello in questione, e secondariamente anche dell’uomo comune, è all’ordine del giorno ed il rischio che il “pubblico apparire” diventi unico vero metro di valutazione anche dei valori intrinsechi dell’essere umano è concreto.
Ma è un tema che affonda le radici in un tempo meno contemporaneo di quanto si possa immaginare.
L’intossicazione da social è stata appena un secolo fa intossicazione letteraria. Estetismo all’ennesima potenza. Quando Gabriele D’Annunzio diceva “rinnovarsi o morire” altro non narrava che della paura dell’uomo di dover accettare una realtà non all’altezza dei suoi desideri e quindi la necessità di assumere diverse forme, di trasformarsi in base a come vuole apparire, a seconda dell’esperienza che vuole vivere. E dei rischi di questa intossicazione trattò Guido Gozzano raccontando il caso Ala: il giovane montanaro che si credeva poeta e che talmente immerso nel mondo della letteratura trasformò la sua vita in un romanzo noir commettendo un duplice delitto passionale.
La differenza con oggi? L’immediatezza, la diffusione massima ed istantanea di qualunque dettaglio più o meno significativo della propria vita. Di più, tutto questo con la possibilità che chiunque dica la sua. Non esistono diritti, non esistono ruoli, non esistono competenze. Esiste solo la capacità di pubblicare un post ad effetto al momento giusto ed il valore e la dimensione della notizia è data dal numero dei “mi piace” e dei commenti.
Non è un caso che a Milano si stia pubblicizzando un ristorante dove si mangia gratis in base a quanti like si riescono ad ottenere sui propri post. E’ un gioco? Forse. E’ la realtà alla quale ci dobbiamo adeguare? Può darsi. Intanto non c’è settore che non abbia adeguato la sua comunicazione a questo standard di aspettative. La politica in primis. Gli “attori” sono tutti in scena e interpretano quello che il pubblico desidera. Vogliamo sapere di più, vedere di più, immedesimarci nella vita di chi crediamo abbia avuto successo, in una giostra vorticosa senza fine, senza più privacy o forse con un privato costruito ad arte, perché è quello che chi guarda si aspetta di vedere. Esiste un’offerta perché vi è una domanda. E’ il voyeurismo della società contemporanea, affamato del “dietro le quinte” spesso altrettanto inscenato.
Ed ecco il post della Isoardi su Instagram. Giusto o sbagliato mettere in piazza la fine di una relazione per di più con un Ministro della Repubblica? Forse né giusto né sbagliato, solo tremendamente attuale.