Anamoni di Lisa Rosamilia e musiche di Michele Sganga

Di Adriano Ercolani





Non è uno spettacolo facile, Anamoni, ideato e interpretato da Lisa Rosamilia con le musiche di Michele Sganga, in scena al Teatro Studio Uno di Roma fino al 30 Aprile.

 

Siamo di fronte a una rappresentazione complessa, stordente, a tratti estenuante per impatto emotivo e ricchezza di significati.

Introduciamo brevemente il tema: una reinterpretazione, moderna e straniante, della figura di Penelope.

Una Penelope senza Ulisse, né Proci, né Telemaco: smarrita e sospesa in un’attesa sempiterna e circolare, ben oltre Beckett, poiché nemmeno il conforto illusorio di un dialogo impossibile e assurdo è presente a colmarne il vuoto.

Solo lo sguardo, perso nell’allucinazione di un ritorno inesistente, e le contorsioni spasmodiche di una danza, in primo luogo interiore, occupano la scena.

Scena che è potente allegoria: la proverbiale tela di Penelope diventa la dimora stessa della protagonista.

Una scenografia intricatissima e affascinante (ideata e realizzata dalla stessa regista/attrice Lisa Rosamilia): una casa sul mare composta di un impressionante intreccio di funi e reti, in cui la tela continuamente tessuta e disfatta diviene focolare, prigione, tortura, nido, punto d’osservazione, luogo metafisico, a seconda dei diversi stati interiori (dalla speranza all’incubo, dalla follia alla liberazione illusoria) incarnati dalla protagonista.

Il tour de force dell’attrice è massacrante, da un punto di vista squisitamente fisico si tratta di una performance strabiliante: una danza contemporanea furiosa e frenetica, interpretata mentre si lotta per liberarsi da infiniti legacci, il tutto sulla sabbia (!).

Ma al di là della bravura sorprendente dell’attrice/ballerina/scenografa, alcuni paradossi affiorano nella visione: uno spettacolo fatto di trame è fondato sull’assenza di una trama.

L’attesa impossibile diviene colma di tensione, a tratti commovente, straziante, nel finale opprimente.

Grande protagonista, accanto al corpo della protagonista nelle sue stupefacenti convulsioni artistiche, è la musica (a tratti veramente splendida) di Michele Sganga, uno dei compositori più colti e geniali della musica contemporanea in Italia.

In primo luogo, la colonna sonora è in simbiosi con l’azione sulla scena: cimento non facile, considerando la continua, imprevedibile, quasi schizofrenica tensione emotiva del personaggio.

Il gioco di intrecci, nodi stretti e scioglimenti improvvisi, cappi soffocanti e slanci nel volo, il senso di claustrofobia e la scoperta dell’illusoria libertà, tutto è restituito con grande sapienza compositiva da Sganga, seguendo mossa per mossa la complessa sceneggiatura di gesti e passi di danza di Lisa Rosamilia.

In tutto ciò, però, l’autore non si limita ad assecondare i gesti sulla scena; talvolta la musica guida, diviene protagonista, domina la scena, creando atmosfere che evocano il culto del focolare da film anni’40, melodie d’amore che si liberano improvvisamente con una delicatezza quasi orientale (grazie anche alla splendida esecuzione violinistica di Lia Tiso), per poi distorcersi in una disperazione prossima al rumore: il perfetto controcanto musicale alla crudele dialettica senza redenzione, tra speranza e disincanto, che innerva lo spettacolo.

C’è una scena, geniale, nel Pinocchio di Carmelo Bene, in cui il protagonista, legato con la catena all’odiato tavolo da studio, si libera, dopo un secondo di riflessione decide di rimettersi la catena, si allontana quanto può, si bea della prossima liberazione fino a che non viene prevedibilmente arrestato nella sua fuga dalla catena tesa, ritorna al banco facendo finta di niente, una volta seduto si lamenta a gesti della cattiva sorte, si dispera e si arrende.



https://youtu.be/D9Oe0sBOt1s

Bene era un genio e ha riassunto in 68 secondi uno degli aspetti più profondi della psicologia (e della condizione) umana.

Lisa Rosamilia, con l’apporto determinante di Michele Sganga, ci ha costruito uno spettacolo di circa un’ora, di cui ci rimarrà la grande emozione di alcuni momenti in cui le contorsioni disperate di un corpo che sembra di cera fusa si sposano alle vertigini di una musica a tratti indimenticabile.

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