Lunedì 25 gennaio con Chiara Comito (arabista, analista geopolitica e co-curatrice del libro Arabpop) abbiamo parlato delle rivoluzioni arabe del 2011 in un’intervista in diretta Instagram. A distanza di dieci anni abbiamo ripercorso gli eventi che hanno segnato quasi tutti i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente e cercato di comprendere i processi politici e culturali che hanno cambiato (e che continuano a dispiegare i loro effetti) in questa regione del mondo.
Iniziamo cercando di dare un quadro generale di quello che è successo nel 2010-2011. Quali erano le ragioni delle proteste? Chi erano e cosa volevano le persone che scendevano in piazza?
Stiamo parlando di tanti paesi e ogni paese ha e aveva delle sue specificità, anche se ci sono indubbiamente dei tratti in comune. Si tratta di paesi caratterizzati da una popolazione molto giovane e con un’alta percentuale di disoccupati. Le persone che scendevano in piazza avevano tra i 20 e 30 anni ed erano figli di quella bomba demografica esplosa negli anni Novanta, causata da un miglioramento di alcune condizioni di vita. Tutti sapevano che questi giovani si sarebbero trovati ad affrontare un vuoto di possibilità lavorative. Molti di quei giovani in piazza erano diplomati o laureati.
Il problema di questi paesi è un apparato burocratico elefantiaco che non riesce ad assorbire la “manodopera locale”. Nonostante ci siano molti posti pubblici, questi sono spesso assegnati secondo logiche di nepotismo e di corruzione. Il settore privato non è molto sviluppato e quindi non è in grado di assorbire la domanda di lavoro, per cui molte persone quando finiscono la scuola o l’università si ritrovano ad essere disoccupate o impiegate nel settore informale. Come ad esempio Mohamed Bouazizi, che era un venditore ambulante di frutta e verdura, o come tante persone al Cairo.
La disparità delle condizioni sociali ed economiche è sicuramente un tratto in comune. Quello che chiedevano i manifestanti erano riforme in senso democratico, dato che questi paesi erano degli stati di polizia dove non era possibile protestare. Non si poteva esprimere il proprio pensiero sul governo in pubblico, la gente non poteva parlare nemmeno con i tassisti perché anche i muri avevano le orecchie. Lo stato di repressione e di censura era in atto non solo sulla parola ma anche sull’espressione artistica.
Ad esempio l’arte o la letteratura in Siria prima del 2011 non solo era poco conosciuta ma era anche poco libera di esprimersi. Gli scrittori siriani erano costretti a scappare in Libano, dove c’era un sistema politico più liberale, molto più favorevole nei confronti dell’arte e della cultura. È sempre stato così, anche se anche in Libano ci sono stati episodi di censura. Le rivoluzioni arabe del 2011 hanno rappresentato uno spartiacque per molti punti di vista e forse il più importante è che le persone sono ritornate ad occupare lo spazio pubblico che prima era appannaggio dei regimi. Si poteva scendere in piazza solo per celebrare i dittatori, ma non per protestare pacificamente e per reclamare diritti e dignità come possiamo fare noi.
Ci siamo ormai abituati all’espressione “Primavera araba”, coniata da Marc Lynch, che però risulta essere una definizione problematica. Da un lato c’è un riferimento eurocentrico alla “Primavera dei popoli” del 1848 e alla Primavera di Praga, e forse anche un certo paternalismo nei confronti di queste popolazioni che finalmente si stavano risvegliando (come se fino a quel momento nessuno si fosse accorto che erano governati da dittatori). D’altra parte anche l’aggettivo “araba” non tiene conto delle innumerevoli etnie presenti nei diversi paesi. Alcuni commentatori sostengono che l’espressione assecondi la tendenza ad appiattire e uniformare i processi che si sono verificati in paesi complessi e molto diversi tra loro in una prospettiva orientalista. Qual è la tua opinione al riguardo? Come vengono chiamate le rivoluzioni nei paesi coinvolti?
Tutt’oggi è una questione molto dibattuta all’interno dell’accademia. Al momento non c’è un’uniformità di vedute su quale sia il termine più giusto. Gli stessi egiziani parlavano sia di thawra (rivoluzione) ma anche di Primavera araba. Personalmente tendo a chiamarle rivoluzioni. Con le altre autrici di Arabpop abbiamo deciso di usare l’espressione tra virgolette perché era molto contestata. Di recente ho letto un libro pubblicato dall’Istituto del Mondo Arabo di Parigi in cui il professore siriano Ziad Majed parlava delle parole della rivoluzione individuando tre termini fondamentali: thawra, intifada, e hirak.
La prima è stata forse la parola più usata da tutti quelli che hanno partecipato alle rivoluzioni arabe. La seconda ha una collocazione storica particolare, perché è stata usata per descrivere le proteste dei palestinesi contro il colonialismo ebraico e sionista e proprio per questo è stata recuperata per significare la lotta contro l’oppressore, che in questo caso non era esterno, ma erano gli stessi dittatori arabi. La terza viene dalla parola “movimento” ed è il termine con cui gli algerini hanno chiamato le loro manifestazioni che continuano da due anni.
Quindi il dibattito è ancora molto aperto. Io ho scelto di chiamarle rivoluzioni, perché sono state più di una rivolta e hanno effettivamente cambiato il corso della storia. Inoltre il termine “primavera” negli ultimi dieci anni si è portato appresso in molti giornali e riviste tutta una serie di metafore abbastanza deprimenti sulle stagioni. Si è cominciato a parlare di “autunno” e “inverno” dopo che le rivoluzioni non hanno preso la piega che molti commentatori esterni europei avrebbero voluto che prendessero.
Potresti spiegarci più nel dettaglio come è stata affrontata la rappresentazione delle rivoluzioni arabe dal sistema mediatico mainstream in Italia, sia nel 2010-2011 ma anche più recentemente. Sei d’accordo con il giudizio di sostanziale fallimento e delusione che sembra prevalere nelle analisi dei media occidentali?
Questo discorso è legato a come in Italia percepiamo il mondo arabo-islamico. Ancora oggi devo spiegare che non tutti gli arabi sono musulmani e che non tutti i musulmani sono arabi, quindi dobbiamo partire proprio dalle basi. Le rivoluzioni sono arrivate un po’ inaspettate, anche per gli analisti esperti di questa regione, mentre tanti giornalisti si sono fiondati su questo tema perché in quel momento andava di moda. Quindi tra il 2011 e il 2012 sono usciti tantissimi libri, saggi e analisi sia sulle rivoluzioni arabe ma anche sulla Siria e sul terrorismo. Soprattutto sull’Isis sono state fatte tantissime pubblicazioni per coprire diverse angolazioni del fenomeno.
Mi sembra che la narrazione italiana sul mondo arabo oscilli tra il pregiudizio, il fanatismo e la negazione di quello che avviene nei paesi arabi. Alla base, secondo me, c’è una scarsa conoscenza sommata ad alcuni pregiudizi e stereotipi. Continuiamo a vedere il mondo arabo-islamico come un tutt’uno uniforme e che non è in grado di decidere del proprio futuro.
Infatti molti analisti parlavano delle rivoluzioni arabe come se fossero state fomentate da Israele, dagli USA o da altre potenze straniere, quando le bandiere di questi paesi non erano assolutamente presenti nelle piazze. Erano persone che avevano preso coscienza di una serie di oppressioni ed erano scese in piazza per tentare di cambiare le cose. Questo non è stato percepito, perché sono state raccontate in modi sbagliati. Poi ci sono stati tanti accademici, giornalisti e ricercatori che erano in quei paesi in quegli anni e hanno provato a raccontare una versione più aderente alla realtà. Per esempio Azzurra Meringolo, una giornalista di Rai Radio 3, era in Egitto per motivi di studio e cominciò a raccontare la rivoluzione e scrisse anche un libro sui protagonisti di Piazza Tahrir.
Come lei ce ne furono tanti altri. Grazie a loro e alle persone in Italia che avevano studiato queste cose si è potuto dare una narrazione più corretta.
In Italia ci occupiamo tantissimo dei paesi arabi quando succede qualcosa, ma poi quando non succede niente non se ne sa più nulla. In questo modo si creano alternativamente dei picchi e dei vuoti di informazione. Questo avviene perché in Italia la politica estera è sempre in secondo piano rispetto alla politica interna. E poi perché i paesi arabi secondo alcune redazioni fanno notizia solo quando ci sono delle crisi.
Per integrare questo vuoto informativo puoi consigliarci dei canali di informazione alternativi per avere notizie sui paesi di questa regione?
In Egitto c’è un quotidiano indipendente, Mada Masr, che pubblica in inglese e in arabo. La direttrice, Lina Attalah, ha vinto moltissimi premi per la qualità del suo giornalismo investigativo. Lei e altri membri della redazione sono stati arrestati tante volte dal regime egiziano. Per quanto riguarda la Tunisia c’è il sito Inkyfada, sulla Siria abbiamo Syria Untold, un collettivo di giornalisti siriani ed europei basati a Berlino.
Secondo te come è cambiata la percezione dei paesi coinvolti nelle rivoluzioni nell’opinione pubblica italiana?
Io sono ottimista. Se si prova a raccontare questi paesi non solo attraverso l’analisi geopolitica ma attraverso l’arte e la cultura si crea una connessione empatica. Per esempio si possono leggere dei romanzi egiziani pubblicati attorno al 2011 che mostrano in nuce alcune problematiche della società egiziana. Anche in Italia c’è stato un aumento di domanda, le persone volevano saperne di più e questa domanda è stata raccolta da case editrici, riviste e realtà culturali indipendenti. Forse non c’è stato un vero e proprio boom, ma si è creato un pubblico più informato e interessato ad approfondire. E magari anche stanco di sentire parlare sempre di arabi terroristi, retrogradi e oppressi.
Con il nostro libro Arabpop ci siamo accorte che le persone erano contente di leggere qualcosa che andasse oltre l’analisi storica, politica o sociologica. Attraverso la cultura si crea un’empatia. Alla fine le problematiche che affrontiamo tutti i giorni sono le stesse: vogliamo tutti essere felici, innamorarci e passare il testimone a chi verrà dopo di noi.
Tu sei una specialista di letteratura: in che modo le rivoluzioni arabe hanno inciso sulla produzione letteraria? Più in generale qual è il rapporto tra la scrittura e l’attivismo politico in questa regione?
Hanno influito in misura diversa a seconda del paese. Molti scrittori siriani sono dovuti scappare nei paesi vicini o in Europa. Molti di loro sono in Germania. Quindi c’è stato un fiorire di produzioni letterarie e cinematografiche siriane nate nella diaspora. In questo senso la rivoluzione siriana ha creato uno spazio di apertura per il mondo intellettuale.
In Egitto c’è stato un boom di pubblicazioni tra il 2011 e il 2012: romanzi, fumetti, saggi, instant books, raccolte di racconti. Poi con il golpe del generale Al Sisi la censura è stata ancora più stringente, andando a colpire prima di tutto il settore culturale. Proprio perché lo scrittore, come dicevo, è in grado di creare empatia e può avere molta più presa sulle persone. E poi perché i regimi hanno paura degli intellettuali, a causa del loro “potere immateriale”, che i regimi non riescono ad avere. Quindi dal 2013 è più difficile fare cultura in Egitto.
Anche in Libia è molto problematico: lo era già prima con Gheddafi, ma anche ora perché la situazione è completamente caotica. La situazione in Tunisia è stata più stabile fino a poco tempo fa. Però la letteratura tunisina si esprime moltissimo in francese. Molti scrittori vivono in Francia e da lì scrivono. In Libano invece la censura è meno pervasiva, per cui sono potute uscire pubblicazioni sui moti rivoluzionari del 2019. Stessa cosa per l’Algeria. Sicuramente quello che succede nella società confluisce poi nei libri, nei romanzi, nella street art, nel graphic design, ecc…
A proposito di censura… Una caratteristica comune di queste rivoluzioni è stata la volontà di riappropriarsi dello spazio pubblico da parte dei manifestanti. Non solo le strade e le piazze ma anche lo spazio pubblico virtuale, che ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione delle proteste. Questo spazio è cambiato dalle rivolte del 2011? C’è più libertà o ci sono misure più stringenti per quanto riguarda la censura?
I social media sono uno spazio libero, accessibile a chiunque. Questo i regimi lo sanno: infatti ogni volta che succede qualcosa per esempio in Egitto o in Iraq, la prima cosa che fanno è chiudere Internet. È successo anche in Iran o in Marocco. Nel settembre 2019 ci sono state delle manifestazioni importanti in Egitto: la polizia lo sapeva e pattugliava le strade vicino a Piazza Tahrir per confiscare i cellulari. Perché non vogliono far arrivare l’informazione che molte persone stanno protestando.
Però nel 2011 questa cosa non era stata compresa, che le persone potessero andare sui social media per organizzare le manifestazioni. Quindi la censura lì è arrivata un po’ dopo. Ma ora, appena ce n’è bisogno, si chiude Internet. In Iraq ad esempio non si può chiudere troppo perché ci sono molti stranieri e diversi interessi in gioco. La censura va a colpire ogni spazio di libertà, e Internet è uno spazio di libertà.
Il ruolo delle donne è stato particolarmente significativo durante le proteste, anche se in misura diversa in ogni paese. Per quanto riguarda la produzione artistica ci sono dei segnali incoraggianti e delle manifestazioni molto interessanti come il festival femminista Chouftouhonna di Tunisi. O anche artiste che hanno acquisito notorietà internazionale, come Emel Mathlouti o Nadia Khiari. Secondo te c’è più spazio ora per le artiste del Nord Africa e del Medioriente?
Non a caso hai citato tre esempi tunisini: Nadia Khiari ha creato il fumetto Willis from Tunis, Emel Mathlouti è una cantante tunisina, anche se ora vive negli USA. In Tunisia la condizione delle donne è leggermente diversa rispetto agli altri paesi. Negli anni 50 fu promulgato uno statuto del codice personale dove i diritti delle donne erano largamente garantiti. La Tunisia ha una storia di attivismo femminile molto importante, quindi non possiamo compararla agli altri paesi.
Ma è vero che le rivoluzioni arabe, avendo aperto il campo del dibattito e lo spazio pubblico ai cittadini, hanno liberato delle energie che erano compresse e represse. Tra queste anche quella del femminismo. Ma ricordiamoci che il femminismo nei paesi arabi non è nato nel 2011.
In Egitto ad esempio c’è una tradizione che risale agli anni Venti. Sicuramente nei decenni precedenti c’è stata un’involuzione, dopo la Rivoluzione islamista in Iran nel 1979. Credo che si possa dire che nel 2011 si sono aperti degli spazi di dibattito e di riflessione a cui le donne hanno partecipato molto. A livello di street art c’è un esempio molto famoso: un graffito di un reggiseno blu, che era quello indossato da un’attivista di Piazza Tahrir, molestata e malmenata dalla polizia. L’artista Bahia Shehab ha identificato questo reggiseno come un simbolo del potere femminile e della lotta contro le molestie e le discriminazioni sulle donne.
Il discorso sul femminismo arabo è molto complesso. Pensiamo all’Arabia Saudita che nel 2018 ha concesso il diritto di guida alle donne. Qualche mese prima però erano state incarcerate delle attiviste che si battevano proprio per permettere alle donne di guidare. È evidente la contraddizione di un potere che imprigiona le donne e poi concede loro dall’alto il diritto di guidare. Bisognerebbe fare un discorso diverso per ogni paese per poterne cogliere le specificità.
Quali sono le principali illusioni che le rivoluzioni hanno creato?
In Siria ad esempio nessuno si augurava quello che è successo. Che una rivolta pacifica che chiedeva democrazia e diritti si trasformasse in una guerra civile regionale e quasi mondiale. Chi è sceso in strada l’ha fatto perché sperava di poter cambiare le cose, anche per il modo in cui Bashar al Assad si era presentato al potere. Ovvero con un volto nuovo, giovane e che piaceva alle cancellerie europee. Nonostante la pesante eredità raccolta dal padre, ci si aspettava che avrebbe reagito diversamente. Invece il suo regime si è mostrato nel suo volto più sanguinario e dittatoriale, non esitando a schiacciare, reprimere e uccidere i propri cittadini. Chi è sceso in piazza è sicuramente rimasto disilluso rispetto al futuro della Siria.
Anche rispetto alla Tunisia forse si può parlare di disillusione. Spesso è stata descritta come l’esempio più riuscito di rivoluzione araba: c’è stata una transizione non violenta, le elezioni, l’alternanza al potere, una costituzione scritta collegialmente. Però i governi non sono stati all’altezza della situazione, non hanno saputo risolvere i problemi del paese antecedenti al 2010 (fondamentalmente la carenza di sviluppo economico). Per cui c’è stato nell’ultimo anno un aumento dell’emigrazione che non si vedeva dal 2011. Per questo le persone negli ultimi giorni hanno ripreso le proteste.
In fin dei conti dieci anni non sono sufficienti per dare una valutazione definitiva su quello che è successo, perché stiamo parlando di processi rivoluzionari che sono lunghi. Quindi dobbiamo sospendere il giudizio e continuare a sostenere la società civile che scende in piazza e che continua a reclamare un futuro migliore.
Giulia Della Michelina