Amore, Il Peccato Di Maggio

Peccato è Amore? Qualche suggerimento ce lo porta il celebre poeta D’Annunzio.

 

Or così fu; pe ’l bosco andando. Era sottile
la mia compagna e bionda. Su la nuca infantile
due ciocche avean quegli ignei luccicori vermigli
che dà a le chiome antiche il Tadema. Tra i cigli
lunghi gli occhi avean l’iride verde risfavillante
di mille atomi d’oro. Da l’alta erba odorante
ella sorgeva eretta come un vivente stelo.
Andavamo pe ’l bosco, soli. Grandi su ’l cielo
gli alberi parean fusi nel bronzo; ma di sotto
a le scorze, passando, udivamo interrotto
ascendere il pugnace fremito de le linfe
e il romper de le gemme anche udivamo.
 O ninfe
amadriadi, occulte ne le estreme radici,
non voi dunque cantaste su ’l passaggio gli auspìci
a l’amore? 

Che ad ogni stagione si susseguano nuovi amori e nuovi addii, ritardi e partenze nelle proprie vite, per molti di noi è cosa nota. Ma chissà se soltanto i poeti rispondono a codesto richiamo misterioso della Natura che s’accende nei loro cuori e nelle lor proprie viscere , spingendoli a compiere un nuovo o forse mille nuovi intriganti quanto ignoti viaggi, sulla nave dell’Amore.

E del peccato?

Perché no. C’è chi lo chiama così, eppure la Natura conosce e parla lingue che la nostra mente razionale non è in grado di comprendere. E tanto meno di classificare. Alle volte queste sensazioni d’amore si confondono col profumo dei fiori bagnati dalla rugiada del mattino mentre vai a correre, li riconosci in un luogo mai visto prima d’ora tra i giochi di ombre e luci che regala una giornata di sole in un incantevole paesello di campagna, lo odi chiamare tra i cinguettii allegri degli uccellini. . . e tutto dentro di te viene travolto da questa festa senza tempo e senza identità, ove tutto si fonde  e si confonde in melodie armoniose  e canti intonati, in colori sgargianti e profumi delicati.

Io guardava Yella, muto. Le acerbe
risa di lei, tra ’l vasto fluttuare de l’erbe
al vento, sotto i dòmi alti de la verdura,
squillavano. Ed al riso le si schiudea la pura
chiostra de i denti, al riso l’arco de la gengiva
quasi ferinamente rosso le si scopriva.
Io guardava aspirando voluttuosamente;
poi che il corpo di lei esalava un ardente
profumo, come un frutto maturo. Una serena
anima era nel bosco sparsa; ma in ogni vena
a me correva l’aspro vin de la giovinezza…
Oh freschissime risa tintinnanti a la brezza
del vespro, salutanti dal bel grembo selvaggio
di un bosco il morituro sol di calendimaggio!

E poi, c’è lei. C’è lui.

Quella persona che finora non avevi notato, non avevi scorto tra le foglie morte di un pigro dì d’autunno.. ma ora è lì. Dinanzi a te.

Odi richiami e sussurri che prima erano rimasti sopiti, la coscienza del cuore riscopre una nuova luce, si fa largo ad una nuova vita. Vita fatta di attimi sfuggenti, di una notte d’amore nel letto di uno sconosciuto, di un abbraccio tra le braccia di una vecchia conoscenza, di un bacio rubato da chi credevi fosse lì in altre vesti. Per motivi che finora credevi certi, erano sicure fondamenta nella tua vita. Precedente.

Ma poi, questi richiami, questi sussurri, queste voci… Peccato è ascoltar il cuore? Peccato è, quando gli istinti ti portano da quella lei, isola sconosciuta in un mondo di certezze?

Peccato è cercarsela, questa isola sconosciuta ove poter abbandonare le proprie vecchie vesti, spogliare l’anima nostra da strati e strati di false immagini e credenze per trovarsi lì, nudi e crudi, dinanzi a qualcuno che non gli importa altro che vederti così come sei?

Peccato è cercar la propria immagine riflessa nel pozzo della Verità, dalle acque limpide, trasparenti, ricche di purezza e sincerità?

Soli andavamo. — Ah, senti, senti i merli fischiare
ella disse, fermandosi. Dal ciel crepuscolare
discendeva su i rami la nebbia violetta.
Senti, senti! — D’un tratto, dietro l’ultima vetta
scomparve, in fondo al lago de le nuvole, il sole.
Allora fu una molle cascata di viole
ne l’aria. Un solco d’oro s’apriva basso; rotto
il bagliore su i culmini indugiava; di sotto
a i culmini illustrati, già ne l’assopimento
grave i tronchi annegavano. Lente nel vapor lento
de la sera le cose perdevano le forme.
Le viole cadevano; era una pioggia enorme.
Tutto il bosco, un istante, parve a la mia vista
una maravigliosa foresta di ametista
che risplendeva; e Yella parve la maga. Eretta
fra l’erba, d’un’aerea tunica violetta
circonfusa, a quell’ultima luce crepuscolare
ella diede l’addio con un alto cantare.
Ella cantava ancóra al mio fianco. Una ciocca
de’ suoi capelli, a tratti, mi sfiorava la bocca;
ed il profumo, l’anima di quella cosa viva,
m’irritava le nari avide, mi saliva
pe ’l capo. Io le guardai la gola palpitante
al ritmo de le note: come bianca!
le piante
curve al passaggio udivano?
Io le guardai la gola.

Or vanivan d’intorno le nebbie di viola
ne l’aria; una penombra dolce velava l’aria,
e su da la foresta profonda e solitaria
sorgevano le voci de le cose, gli odori
de le cose. Pareva, non so, come dai fiori
da le foglie da l’erbe un sogno vegetale
salisse e si spandesse, grande e soave; quale,
non so, da le dormenti acque a l’alba un vapore.
Io respirava un sogno di foresta in amore.
Ella cantava; e il puro canto rendeva pure
tutte le cose.

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Tacque; poi che su le pianure
a l’orizzonte il disco de ‘l plenilunio sorse,
improvviso. Pe ‘l bosco addormentato corse
allora un lungo brivido. Il benigno rossore
lentamente vinceva la notte; da ‘l pallore
de ‘l cielo il disco enorme brillò, come un divino
scudo, classicamente.

O, Vergilio latino,
o tu che da la curva lira d’avorio i canti
sacri derivi, m’odi! Se mai le riluttanti
ciglia a notte domai su ‘l tuo poema e i dolci
sonni immolai su l’ara, mite Vergilio, molci
or le mie corde e l’ali concedimi a ‘l linguaggio,
dà gl’inni a ‘l plenilunio reo di calendimaggio!

Quando il grande letargo del bosco ne i chiarori
lunari si sommerse, crescevano li odori
su dal bosco profondo in marea fresca; e il vento
carico de li odori per quel biancheggiamento
mettea soffi, recando come lunghi bramiti
di cervi in lontananza. Or le cerve da i miti
occhi umani ascoltavano ebre di desiderio
que’ richiami d’amore, trepide ne ‘l misterio
de l’ombre vigilando se non già tra ‘l fogliame
d’in torno luccicassero li occhi ardenti di rame
d’un amante. Passava il vento: i secolari
tronchi di quercia ergevano a li incanti lunari
le membra, come atleti che chiedessero abbracci,
ansando ed anelando, non piú paghi de i lacci
de l’edera. Parevano rettili alti in agguato
certi alberi; mettevano su ‘l candore perlato
de la luna, certi alberi, come una efflorescenza
rigida di dïaspro; e ne la evanescenza
de la luna era come una selva lontana
di cupole e di aguglie, era come una strana
città che si perdeva in fughe di viventi
colonne, pe ‘l vapore. Ma li odori crescenti
attossicavan l’aria; ma da quel gran letargo
vegetale esalava un respirare, un largo
respirare di belva; ma come voci rotte
di piacere animavano il bosco, ne la notte.

Perché peccato è ricercare quell’ancestrale unione cosmica, indissolubile, col divino? Peccato è ricercarlo  nei cuori dei nostri simili?

                                                  Poesia di G. D’Annunzio,                                                       “Il peccato di Maggio”

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