Chi lo dice che l’amore debba necessariamente assumere dei lineamenti fisici, carnali; assomigliare a due persone che srotolano la loro passione attorcigliando due corpi crudi e ansimanti?
Credo in un amore vero, vivo, latente, e celato da inutili facciate. Credo nell’amore tra due anime affini, una donna e un’altra donna, che non si conoscono, ma si scoprono, tra le righe di un libro.
Credo nell’amore per un luogo, uno stato, una città, un posto. Credo che al mondo possano esistere tanti amori, vivi e ardenti, come fuoco vivo, che corrode le tue viscere, invadendoti l’anima, come lo squadrone di un esercito.
Credo ne “La femmina nuda”, una rivelazione di una me stessa, che avevo accantonato da tempo.
Credo nell’amore per un corpo, che non è mai stato neanche sfiorato. Credo nel desiderio, quel desiderio, che altro non è che una questione millimetrica. Credo nella malattia. Credo in tutto questo, perchè non voglio arrendermi all’idea che l’amore sia anche… Altro. Altro, oltre alla normale concezione di questo.
Io mi sono innamorata, profondamente, pochi giorni fa. Ho amato intensamente Anna, una donna bellissima, conosciuta tra le righe di un romanzo, che non avrei mai voluto smettere di leggere.
“La femmina nuda” edito da “La nave di Teseo”, di Elena Stancanelli.
Non so se sia possibile morire per amore, ma sono certa che una sensibilità maggiore, porti a soffrire immensamente, a sventrarti le membra con le tue stesse unghie, perfettamente smaltate.
Quando un amore carnale ti ferisce l’anima, sopraggiunge, per pochi esseri prescelti, una pratica invisibile e subdola. Credo possa definirsi autolesionismo.
Io e Anna condividiamo una passione morbosa, quella per l’amore. L’amore vero. Abbiamo in comune una caverna inesplorata, dalle pareti morbide; un umido corridoio, in fondo alle nostre viscere, al culmine dei nostri organi e del ventre, e della loro incessante attività. Ma non è tutto.
Immagini perfette di un amore sbiadito, masticato, maciullato, come fosse cibo per ruminanti. Un amore passato, del quale non resta che un rancore bruciante, che ti pizzica il volto come una fastidiosa zanzara.
Condividiamo un desiderio bruto, una scarica elettrica repressa, nel fondo delle viscere di quel corpo, che disprezziamo, rifiutiamo, abbandoniamo, come se non ci appartenesse più.
“A Firenze, nel museo della Specola,c’è la riproduzione di un corpo femminile in cera. La chiamano la Venere dei medici perchè, pur trattandosi di un modello anatomico, è molto sensuale. Se ne sta sdraiata su un cuscino, come se stesse provando piacere. Anche il volto, con le labbra rosse, è abbandonato, come quello di chi ha appena avuto un orgasmo”.
Quando il proprio corpo diventa un modello anatomico per studiosi, pronto per il sezionamento; un corpo che non sfioriamo più neanche per sbaglio. Quando il piacere non si sa più che gusto abbia, perchè sotterrato da cumuli di infinita sofferenza.
Quando le sani abitudini, di chi trascorre un’esistenza serena non esistono più. Non esiste più il giorno, né la notte. Non esiste il sole, il tempo, la comune percezione delle cose. Esisti solo tu e il tuo dolore. Tu e quel vuoto infinito, che ti si apre all’interno, corrodendo le pareti del tuo stomaco, spingendosi fino all’utero. Un corpo stanco e tormentato, abbandonato al suo destino, pronto ad affrontare le intemperie che inevitabilmente la vita ti scuote in pieno volto.
L’amore profondo ti distrugge; trascinando la tua esistenza verso una realtà nuova, rabbiosa, bellicosa, che assume il carattere di una malattia. Inquietante e struggente, la tua vita si trascina, passo dopo passo, srotolandosi come i veli di una carta igienica a basso costo. Sporcandosi, come le tue lenzuola dopo il sesso animalesco con sconosciuti. Quel sesso che ti concedi quando sai di non essere più nessuno. Quando sai di aver perduto quella preziosa identità che da sempre ti contraddistingue; un insieme di valori, persi nel soffio di una notte. L’amore sporco è quello che ti abbandona sul ciglio di una strada. Nuda, inerme, sofferente.
Anna vive le proprie meschinità e sofferenze, testimone di una realtà che accomuna ogni donna sensibile del nostri giorni. Soffocata dai vizi e dalla follia, si abbandona a quello che lei stessa denomina “regno dell’idiozia”, massacrandosi anima e corpo, annebbiando la mente attraverso fiumi di alcool e nuvole di fumo. Anna non si fida più di nessuno, tanto meno di se stessa. Si arrende all’ossessione, alla follia, che la spinge a forzare l’intimità delle persone che le scorrono accanto, come figurine di un album di vita, all’interno della quale non è più la benvenuta. Prova ad intrufolarsi machiavellicamente, nei pensieri e nel corpo di qualcun altro, per scoprire se è davvero diverso da lei. La tecnologia, sfruttata nel peggior modo che possa esistere; per annullare la fisicità e la concretezza del proprio corpo, lanciarci nella rete, attorcigliandoci nei fili invisibili di questa, come anime nude, prive di qualsiasi paradigma morale.
Anna trascorre un anno al limite dell’esasperazione, svuotando il suo corpo da ogni vizio, valore, virtù, rendendolo artefice e schiavo del suo male, nudo, inerme, disintossicato da tutto, ma privo di difese, incapace di reagire. Quando sei così stanca che ti auguri solo di morire. Quando sei talmente incapace di ragionare e riflettere lucidamente, che credi che qualche corpo estraneo abbia lesionato irreversibilmente l’arteria, che permette al sangue di affluire al cervello.
Elena Stancanelli, classe 1965, è una scrittrice fiorentina, autrice di diverse altre opere, tra cui “Benzina”, vincitore del premio Giuseppe Berto, nel 1998, “Firenze da piccola”, nel 2006, “Un uomo giusto”, del 2011.
E’ grazie alla sua morbida scrittura, umida, sinuosa, come le curve di un corpo femminile, che ho avuto modo di conoscere Anna, e innamorarmene perdutamente.
Provo amore per quell’esistenza bulimica, vissuta nella bramosia di afferrare l’impossibile, anche ciò che non ci appartiene, e che non sarà mai nostro. Per poi vomitarlo tutto alle nostre spalle, come cibo in scatola andato a male.
L’amore profondo ti distrugge; trascinando la tua esistenza verso una realtà nuova, rabbiosa, bellicosa, che assume il carattere di una malattia. Ma è proprio quando del nostro corpo non resta altro che un involucro secco, vuoto e raggrinzito, che siamo pronte a riempirlo di vita nuova, e ricominciare, un’altra volta, da noi.
Elisa Bellino