Nel quarto libro del De Rerum Natura, il filosofo Lucrezio nel I secolo a.C. compiva dell’amore una decostruzione feroce. Macché amare una sola persona, macché per sempre, macché incondizionatamente – mette in guardia. Con una piccola riserva…
«L’amore? Ma lascia perdere! Ti procura un sacco di guai. Molto meglio andare a prostitute, se senti il bisogno di compagnia!». Questo passaggio, sorprendentemente, non arriva dal chiacchiericcio di un vecchio cinico o di un giovane gradasso in un bar di provincia. Compare, invece, nel De Rerum Natura di Tito Lucrezio Caro, uno dei testi più interessanti dell’antichità (I secolo a.C.). Perché il filosofo romano seguace dell’epicureismo la pensava così?
Lucrezio e l’amore: una filosofica questione privata?
Della vita di Lucrezio, in effetti, non si sa quasi nulla. Essendo un epicureo, per preservare la tranquillità dell’animo seguiva il precetto «Vivi nascosto», cioè cercava di evitare la vita politica come la peste. Le inquietudini, però potrebbero essergli venute da tutt’altro fronte. Secondo quanto riporta San Girolamo nel Chronicon (380 d.C.), Lucrezio potrebbe aver sofferto pene d’amore così feroci da finire per morirne. In particolare, riporta il santo basandosi su alcuni dubbi passi di Svetonio, il filosofo si sarebbe ammalato per un filtro d’amore somministratogli da un’amante gelosa. Così, sarebbe riuscito a scrivere il De Rerum Natura lottando contro la follia che a poco a poco gli annebbiava la mente. Capitolando, alla fine, e dandosi la morte all’età di soli 43 anni. Un racconto suggestivo, ma quanto c’è di vero?
Probabilmente, poco. Va tenuto presente, infatti, che nel suo poema Lucrezio sosteneva la disinteressata estraneità degli Dei alle vicende umane. Non dovrebbe sorprendere, perciò, che il cristiano Girolamo lo presentasse come non lucido e razionale nel momento della stesura. Del resto, lo stesso potrebbe valere per l’interpretazione della figura di Lucrezio già in epoca repubblicana ed imperiale. Intellettuali come Cicerone – che curò la pubblicazione postuma della sua opera – e, più tardi, Virgilio e Ovidio, senz’altro ne riconoscevano la grandezza artistica. Eppure, Lucrezio era e non poteva non essere un outsider a Roma proprio a causa della sua filosofia. Una filosofia che non solo sconsigliava l’impegno politico, ma vedeva la religione come uno strumento di assoggettamento della coscienza. In aperto contrasto, dunque, con l’importanza che essa rivestiva nella vita pubblica.
Essendo impossibile obliterarlo, è possibile perciò che Lucrezio sia stato ridimensionato attraverso un racconto romanzato della sua vicenda. La sua concezione dell’amore, perciò, al netto del percorso biografico, va ricontestualizzata principalmente nel ragionamento etico condotto nel De Rerum Natura.
La natura delle cose d’amore
Le considerazioni di Lucrezio sull’amore si trovano nel quarto libro del suo poema: non a caso, quello dedicato alle superstizioni. Perché ciò che le persone chiamano “amore” spesso altro non è che il travestimento di un desiderio dei sensi che produce fantasmagorie assurde. Queste ultime generano turbamento, portano gli innamorati a girare come trottole e a rendersi ridicoli. Per riuscire a vincerle – e a rendersene immuni – bisogna perciò anzitutto decostruire l’amore. Come? Semplice: rivelandone la natura.
Ciò che prende il nome di “amore” in genere è prima di tutto libido. Cioè la voce della natura che ci spinge a riprodurci per assicurare la continuità della specie. Per dirlo con le parole del filosofo Michel Onfray,
Noi ci crediamo liberi di amare, ma, in realtà, siamo determinati dal piano naturale. Esso ci prende in ostaggio per raggiungere i suoi fini: la volontà della specie parassita l’individuo che non le può resistere.
In termini biologici e fisiologici, l’idea di Lucrezio è chiara. Come precisa Onfray, «quello che noi chiamiamo “amore” è sempre e soltanto un flusso di atomi traboccante che cerca un vaso in cui spandersi». Con buona pace della celebrazione romantica dell’amore. Del resto, nel De Rerum Natura la concettualizzazione è molto esplicita:
Diverse cause turbano e stimolano oggetti diversi; dall’uomo solo il fascino dell’uomo fa sgorgare il seme umano. […] Le parti irritate si gonfiano di seme, e nasce volontà di gettarlo dove s’appunta il desiderio crudele. Allora si cerca quel corpo da cui la mente è ferita d’amore. Così, chi riceve i dardi di Venere, che li saetti un fanciullo o una donna bellissima, si protende verso l’essere da cui è ferito. A lui arde di congiungersi, e nel suo corpo gettare l’umore sgorgato dal corpo, perché la muta brama presagisce il piacere.
«Questa è Venere per noi.»
Il problema, secondo Lucrezio, sorge non tanto rispetto al desiderio, ma rispetto al modo in cui dimoriamo con esso. Nutrirlo fa parte della nostra natura, rispetto a esso non abbiamo scelta. Possiamo scegliere, però, se possederlo o esserne posseduti.
Ne siamo posseduti, dal punto di vista del filosofo, quando nel soddisfarlo (o nel provarci) sacrifichiamo ad esso tutto. Fraintendendo per ragione di vita ciò che è fondamentalmente un istinto. Ecco allora che si dilapidano patrimoni, si perde il buon nome, si trascurano i doveri pur di assicurarsi l’oggetto d’amore. Non considerando, anzitutto, che il giovane o la donna amata è solo uno tra i tanti oggetti d’amore possibile. Mentendo a sé stessi sul fatto che si sta idealizzando come una divinità qualcuno che ha, come tutti, difetti fisici e morali. E rifiutando di ammettere che questo tipo di desiderio così smodato non si appaga mai e genera guai a non finire.
Al contrario, lo possediamo quando ci rendiamo conto che amare così, subordinando ogni cosa all’amore, non è sano. Quando riusciamo a riportare l’amore dal cielo alla terra, contestualizzandolo al posto che gli spetta. Quando, insomma, impediamo all’amore di privarci di noi stessi. Tenendoci lontano dalle fantasmagorie con tutte le strategie necessarie.
Meglio fuggire quei simulacri, allontanare da sé ogni alimento d’amore, e volgere ad altro oggetto la mente; e l’umore raccolto gettarlo in ogni corpo che capita, non serbarlo rivolti per sempre all’amore di un solo, e preparare a se stessi affanno e sicuro dolore. […] Non si priva dei frutti di Venere chi evita amore, ma piuttosto ne coglie le gioie che son senza pena. Certo a chi è in senno viene di lì un piacere più schietto che ai patiti d’amore.
Elogio di «Venere vagabonda»… O forse no
Insomma, l’amore come desiderio matto e disperatissimo di un’unica persona è, secondo Lucrezio, una pessima idea. Infatti, scrive,
La piaga d’amore incrudelisce e si corrompe, a nutrirla. Ogni giorno cresce il delirio e il tormento s’aggrava, se con nuove piaghe non cancelli le prime ferite. Passando d’una in altra Venere vagabonda, devi curarle ancor fresche, o riuscire ad altro oggetto a volgere i moti dell’anima.
Però…
Però, ben nascosta un centinaio di versi più avanti, si trova una considerazione che sembra ribaltare la prospettiva. Difatti, ammette Lucrezio,
Non per opera divina o per le frecce di Venere accade talora che s’ami una donnetta ben bella. La stessa femmina a volte con i modi gentili e la nitida eleganza del corpo, riesce ad abituarti facilmente a passare la vita con lei. Del resto la consuetudine concilia l’amore.
Sembra esistere, cioè, per il filosofo, un’altra forma d’amore, ben diverso dalla fregola sconsiderata precedentemente descritta. Quello che nasce dalla consuetudine, assumendo la forma di un’amicizia e di un rispetto reciproci che partecipano del corpo e della sessualità. Un sentimento che non comporta né la perdita di sé né l’oblio dei difetti dell’altro, ma un percorso di reciproca conoscenza inesauribile. Per questo, dal punto di vista del pensatore, varrebbe ben la pena assumersi un rischio, certi comunque di non mettere a rischio la serenità dell’anima.