L’ambientalismo serve l’uomo o è amore incondizionato per la Natura?

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In un campo dove il negazionismo arranca, la discussione dei contenuti, l’ambientalismo regna sovrano. Tuttavia, i venti contrari i sospingono la questione ambientalista verso la terra del nulla, del virtuale e delle fake news.

Ma l’ambientalismo deve potersi ribellare da narrazioni interessate. Perché l’ambientalismo si genera dal problematicismo. Dove per problematicismo s’intende un orientamento di pensiero atto alla costante messa in discussione dello status quo, che sia questo culturale, sociale o industriale.  Il negazionismo è invece il trionfo dell’insipienza volgare, quasi dogmatica.

L’ambientalismo è figlio sempre di una certa visione esistenzialista dell’uomo e del genere umano.



Senza nessuna volontà di offendere, è giusto evidenziare come una certa assenza di problematicismo sia presente anche negli ambientalisti nudi e puri, radicalizzati nelle loro erbe “naturali” (come se la Natura accettasse eccezioni) e immobili in una visione manichea del mondo diviso tra i “completamente buoni” e i brutti ceffi degli industriali “completamente cattivi”.

Una ricerca critica della “verità” è forse anche la sola differenza tra un pensiero moderato e uno estremista. È anche la differenza tra un uomo di scienza e uno dominato dalla sola sfera religiosa. Se il militante fanatico ed estremista non viene colto mai da dubbi e ripensamenti, il moderato problematicizza, in primis il suo pensiero e, in secondo luogo, quello degli altri.

Ambientalismo ed esistenzialismo

La questione ambientale, l’infatuazione ambientalista e la questione esistenziale sono intrinsecamente correlate tra loro. Sono insieme allo stesso tempo madre e figlia. Esiste un collegamento infatti tra come ci pensiamo agenti nel mondo e come ci comportiamo.

Le visioni esistenziali, e le domande che ci poniamo da cui il problematicismo trae linfa vitale, sono forse le radici di una percepita legittimità allo sfruttamento barbaro del fazzoletto botanico in cui viviamo.

Risulta chiaro il nesso: un’esistenza, poggiata sulla convinzione che il mondo sia solo un appartamento in affitto e noi gli unici coinquilini in regola, legittima qualsiasi desiderio di prevaricazione nei confronti di tutto ciò che racchiude la stanza del mondo. Alberi, pietre, prati, erbe, insetti, cervi, maiali, mare, sabbia, vento, falchi, fagiani, piccioni, cani, cavalli, gatti ecc…

La stessa Genesi cristiana si poggia sulla concezione che l’animale, quindi il creato, esista per soddisfare e rendersi utile all’uomo. Dal momento che è impossibile per noi non definirci cristiani, anche la nostra società è imperniata sullo sfruttamento in scala industriale dell’ambiente e di ciò che esso offre.

Per inciso, pure lo spirito del capitalismo è semanticamente e mitologicamente cristiano: lavora sodo la terra, falla fruttare, doma gli animali, falli correre per il tuo guadagno, custodisci la casa, proteggi la tua famiglia e, se così farai, ti sarà garantito un posto in Paradiso.

La difficile definizione di salvaguardia ambientale

Anche all’interno dell’ecologia e della conservazione degli habitat e delle specie esistono diverse correnti di pensiero su cosa significhi conservazione e quali debbano essere gli obiettivi a riguardo.

Un conto è salvaguardare la Natura perché questa garantisce servizi irrinunciabili all’uomo. Completamente diverso, invece, proteggerla per questioni più esistenziali, perché banalmente ci si sente connessi ad essa, perché è bella o perché è l’unica casa che abbiamo.

Questa divergenza di obiettivi si riflette anche nella tipologia di interventi tesi a ripristinare un certo habitat o una certa specie vivente al suo interno. Nel primo caso, quello che primariamente interessa è il mantenimento del servizio reso all’uomo e di conseguenza non sarà un problema ignorare o incentivare l’estinzione di una specie dannosa per le attività umane. Nel secondo caso, invece, quel che importa è la totale conservazione dell’ambiente naturale. Ad ogni modo, l’ecologia sta vivendo una lotta interna per decidere quale dei due modi di intendere la conservazione sia il più “giusto”. O il più utile.

L’introspezione non è un atto banale, la responsabilità sociale sì però

Forse, come sostengono alcuni, non si può obbligare a percepire la connessione con la Natura o costringere di vedere le cose solo da un certo punto di vista.

Quello però che si può provare a incentivare è la responsabilità sociale di ogni individuo nei confronti dell’altro individuo, quindi della specie umana intera. Soprattutto perché, messo in considerazione il rischio di assistere a un’apocalisse climatica imminente, il tempo stringe sul collo.

Certo, l’ambientalismo esistenziale può giocare a favore della responsabilità sociale. Anche più di quello poggiato sulla paura di estinguersi. Ma l’esistenzialismo necessita di tempo anche solo per maturare le giuste domande. E di tempo forse noi non ne abbiamo  così tanto.

Axel Sintoni

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