Le alluvioni in Emilia-Romagna vanno analizzate in relazione a un consumo di suolo che va adattato ai cambiamenti climatici in corso.
Le alluvioni in Emilia-Romagna e nelle zone più a nord delle Marche hanno ancora conseguenze su questi territori. Lo scorso maggio su queste zone è caduta in 15 giorni una quantità di pioggia pari a quella che mediamente si registra in 7 mesi: tra i 150 e i 200 millimetri tra il ravennate e le zone orientali del bolognese e fino a 150 millimetri di pioggia sulla pianura tra Cesena e Forlì. Gli ultimi dati indicano che complessivamente almeno un migliaio di frane sono ancora attive. Tra queste, le più significative sono concentrate in 54 comuni. Inoltre, sono ancora 23.000 gli sfollati e 75 i comuni coinvolti da allagamenti. Oltre alle difficoltà che chi vive in queste zone sta affrontando, sono molti gli effetti che questo evento ha avuto e ancora avrà sull’ambiente.
Nel definire le cause delle alluvioni in Emilia-Romagna molti pongono l’accento sugli effetti della siccità in questi territori. Si tratta di fattori che hanno una forte rilevanza, ma non sono gli unici. Dietro l’apparente eccezionalità di questo evento risiede un diffuso eccesso di consumo di suolo che ne ha provocato l’impermeabilizzazione, aggiungendo zone sensibili a quelle già colpite dalla siccità. Come ha commentato all’AGI (Agenzia Italia) Francesca Giordano, ricercatrice dell’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale),
l’Emilia Romagna è una delle regioni in Italia in cui sono più alti i valori di consumo di suolo anche nei territori a livello alto di pericolosità idraulica. Si costruisce ancora in zone pericolose andando a esporre le popolazioni al rischio. Ci sono edifici, forse condonati nel tempo, che si trovano a essere a ridosso degli argini dei fiumi. L’impermeabilizzazione del suolo rende il territorio meno in grado di assorbire l’acqua.
Gli effetti della siccità sulle alluvioni in Emilia-Romagna
L’ultimo rapporto IdroMeteoClima Emilia-Romagna (2023) analizza l’andamento delle piogge durante il 2022. La loro scarsità durante la maggior parte dell’anno ha portato alla prosecuzione di una siccità che aveva caratterizzato anche la prima metà del 2021. Infatti, le precipitazioni da gennaio a luglio 2022 (circa 281 mm medi regionali) sono state in assoluto le più basse dal 1961 e inferiori all’ultimo record del 2017 (circa 301 mm). Un mese autunnale come quello di ottobre è risultato il meno piovoso. Nel complesso, le precipitazioni annue regionali sono risultate pari a 677 mm, rendendo quest’anno il quinto meno piovoso dal 1961, dopo il 1988, il 1983, il 2021 e il 2011.
Il 2022 è stato per la regione l’anno più caldo dal 1961 in termini di temperatura media e massima. Il 23 luglio a Granarolo Faentino, uno dei “cuori” dell’emergenza delle alluvioni in Emilia-Romagna, si è registrata la temperatura massima assoluta di 41,2°. L’assenza di piogge e l’aumento delle temperature sono il frutto di una crisi climatica che ha portato la regione a subire una siccità senza precedenti. Quest’ultima ha limitato la capacità del suolo di assorbire acqua in molti territori della regione. Come evidenzia il report, la successione di due anni consecutivi di estrema siccità è un record. Condizioni simili si sono presentate nel biennio 2006-2007 ma con temperature e valori totali annui meno estremi. Testimone è stato il deflusso annuo del fiume Po (551 m3/s), che nel 2022 è sceso al di sotto del minimo storico degli ultimi 100 anni.
Tra consumo e impermeabilizzazione del suolo
Il consumo di suolo è la perdita di una risorsa ambientale, limitata e non rinnovabile, dovuta all’occupazione di una superficie originariamente agricola, semi-naturale o naturale. Questo fenomeno è legato alla costruzione di nuovi edifici, insediamenti e infrastrutture, alla conversione di terreno entro un’area urbana e all’espansione delle città. L’uso di asfalto e calcestruzzo per la costruzione di edifici e strade è la forma più evidente e diffusa di copertura artificiale. Un altro esempio è la compattazione del terreno in aree non asfaltate per la costruzione di parcheggi. Mentre quest’ultima, se realizzata con specifiche tecnologie costruttive (ad esempio una pavimentazione semi-permeabile), può comportare una perdita parziale delle funzionalità del terreno, la cementificazione porta a una perdita totale della “risorsa suolo”.
Infatti, la copertura con materiali impermeabili è l’uso a maggiore impatto che si può fare del terreno in quanto ne compromette e spesso ne determina la perdita totale delle funzionalità. Il consumo del suolo limita il ruolo di queste risorsa nel ciclo degli elementi nutritivi (ad esempio nell’assorbimento di CO2), nel garantire la biodiversità e nella regolazione dei flussi idrici. Come affermato dalla Commissione Europea nel 2012, l’impermeabilizzazione rappresenta la principale causa di degrado del suolo in Europa in quanto contribuisce ai cambiamenti climatici, minaccia la biodiversità, provoca la perdita di terreni agricoli e di aree naturali e semi-naturali, contribuisce alla distruzione del paesaggio, alla perdita delle capacità di mitigazione degli effetti termici locali e di regolazione dei cicli naturali e accresce il rischio di inondazioni.
L’ultimo report ISPRA
Ogni anno l’ISPRA pubblica insieme al Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) un report sull’impermeabilizzazione del suolo in Italia. Insieme alla cartografia e ad altre banche dati, il rapporto “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici” (2022) consente di valutare gli stati di degrado del territorio e l’impatto del consumo di suolo sul paesaggio e sugli ecosistemi. In riferimento agli anni 2020-2021 il report ha registrato un avanzare della diffusione, della decentralizzazione e della densificazione di aree urbane soprattutto in zone costiere e in aree di pianura.
In 15 regioni il suolo consumato ha superato del 5% i dati raccolti dall’edizione precedente della ricerca. I valori percentuali più elevati sono quelli della Lombardia (12,12%), del Veneto (11,90%) e della Campania (10,49%). Con valori sopra la media nazionale e compresi tra il 7 e il 9%, le regioni subito a seguire sono l’Emilia-Romagna, la Puglia, il Lazio, il Friuli-Venezia Giulia e la Liguria. La regione con la percentuale minore di aumento di suolo consumato è la Valle d’Aosta (2,15%).
La cementificazione in Emilia-Romagna
Come evidenzia il report ISPRA, l’Emilia-Romagna è terza in Italia nell’incremento di consumo di suolo dopo la Lombardia (883 ettari) e il Veneto (684). Infatti tra il 2020 e il 2021 la regione ha costruito su 658 ettari in più rispetto agli altri anni. Inoltre, molto di questo consumo di suolo è stato registrato in aree protette (più di 2,1 ettari), in aree a pericolosità di frana (più di 11,8 ettari) e in aree a pericolosità idraulica. Infatti, solo in questo periodo si è costruito su 78,6 ettari di aree in cui il pericolo di alluvioni è alto e su 501,9 ettari in zone a media pericolosità.
Questo consumo di suolo diffuso ha portato la regione ad avere una superficie impermeabile pari all’8,9% di quella totale, un numero superiore alla media nazionale (7,1%). Inoltre, la provincia di Ravenna è stata la seconda provincia regionale per consumo di suolo nel 2020-2021, occupando 114 ettari pari al 17,3% del consumo regionale. Insieme a Faenza e Castelbolognese, questa provincia è stata tra le più colpite dalle alluvioni in Emilia-Romagna.
I tempi di ritorno delle alluvioni in Emilia-Romagna
A questo punto è chiaro come le alluvioni in Emilia-Romagna non possano essere spiegate come un semplice evento naturale. Tuttavia nemmeno è possibile additare la causa unicamente al cambiamento climatico o al consumo di suolo che si è avuto nella regione. Come evidenzia il giornalista Ferdinando Cotugno, per analizzare il legame tra questi elementi in relazione alle alluvioni è necessario tenere conto dei tempi di ritorno, ossia la frequenza con la quale un evento si può verificare, che consente di valutarne il pericolo in fase di progettazione di edifici e infrastrutture.
Secondo le più recenti mappe di pericolosità, il tempo di ritorno degli eventi idrici nella maggior parte delle aree alluvionate oscilla tra i 100 e i 200 anni (indice di pericolosità P2), con qualche zona ad alta pericolosità (P3, ossia 10-50 anni). Oggi le stime devono tenere in conto che il tempo di ritorno degli eventi alluvionali si è accorciato a causa dei cambiamenti climatici. Lo dimostra il fatto che in queste stesse zone ci siano state due alluvioni in due settimane. Come scrive Cotugno su Domani,
la crisi climatica rende comuni gli eventi eccezionali, ne aumenta l’intensità e la frequenza, il tempo di ritorno si accorcia, le tempeste da “una volta ogni secolo” diventano una volta ogni decennio e spesso anche meno.
Che la regione sia stata vittima di una siccità tale da aver ridotto sensibilmente la capacità dei terreni di assorbire l’acqua è certamente vero, ma il fenomeno va inquadrato in un più ampio e ben più rilevante processo di consumo di suolo che va adattato ai cambiamenti climatici in corso. Benché la crisi climatica sia un fenomeno globale, dunque difficilmente contrastabile da una singola regione, è tuttavia possibile proporre politiche locali tese alla riduzione del rischio idraulico (ad esempio legate al riutilizzo di edifici esistenti, dunque contrastando nuove costruzioni) e all’incentivo alla de-sigillazione dei suoli pubblici e privati, ovvero la riconversione di terreni impermeabili in porzioni di territorio in grado di assorbire maggiori quantità di acqua.