Allevamenti intensivi: l’impatto ambientale è drammatico

Allevamenti intensivi

Pigs at a factory. Farming in Russia

Gli allevamenti intensivi sono una delle principali industrie inquinanti del mondo.

È ormai una tesi sostenuta con un ampio consenso nella comunità scientifica quella che vede il consumo di carne da allevamenti intensivi non più sostenibile né per il pianeta né per la salute delle persone. A queste si aggiunge la tesi dell’anti eticità e del maltrattamento animale, ignorata a lungo. I motivi allarmanti sono parecchi.

Anzitutto è il caso di citare i cambiamenti climatici e l’effetto serra, a cui gli allevamenti intensivi contribuiscono, secondo la FAO, con la produzione di 7 milioni di tonnellate di CO2. Inoltre, un fattore di estremo rischio è la produzione di ammoniaca, che per il 94,2 per cento deriva da questo settore. L’ammoniaca, attraverso alcune reazioni con altre sostanze presenti in natura o prodotte artificialmente, porta alla formazione dei maggiori componenti delle polveri sottili. Questi, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, sono responsabili di diverse patologie a cui si riconducono un terzo delle morti premature.

L’altro gas emesso in alta percentuale (55 per cento) è il metano, che, come sappiamo, è, dopo la CO2, il secondo gas serra responsabile del riscaldamento globale.

Un altro punto da considerare è il l’utilizzo del suolo necessario per l’allevamento di bestiame. Infatti, un quarto della superficie delle terre emerse è occupato da pascoli, un terzo delle coltivazioni produce mangime per gli animali da macello. La mancanza di terreni agricoli porta inevitabilmente alla deforestazione, come vediamo in Amazzonia, dove il 91% dei terreni recuperati tramite la deforestazione è usato per i pascoli o per la produzione di mangime.

Anche l’impronta idrica è molto elevata. Secondo i calcoli degli scienziati Mekonnen e Hoekstra per produrre un chilo di carne bovina in modo intensivo servono in media circa 15.400 litri d’acqua.

Purtroppo, però, nonostante il calo degli ultimi anni, la carne continua ad essere l’alimento più consumato al mondo. Infatti, le carni bovine, di maiale e di pollo da sole costituiscono il 93% del consumo di carne mondiale. Tutte e tre vengono prodotte attraverso l’allevamento intensivo, anche se vanno distinte per l’entità e per il tipo di impatto ambientale derivante dalla loro produzione.

Un altro dei problemi che gravita intorno agli allevamenti intensivi è l’alto uso di antibiotici che, almeno in Italia, viene destinato per la maggior parte al bestiame. Queste sostanze finiscono automaticamente nei nostri organismi, andando ad aumentare il fenomeno cosiddetto “antibiotico-resistenza”, per cui i batteri nel corso del tempo diventano in grado di sopravvivere ai farmaci. Secondo l’Oms questo rappresenta una delle principali cause di decessi al mondo, causandone ogni anno 700 mila.

Carne coltivata e i suoi benefici

Una delle soluzioni che apporterebbe maggiori benefici è il consumo della carne coltivata. Come spiega Animal Equality, la carne coltivata, conosciuta come “clean meat”, cioè carne in vitrio, non deriva dall’abbattimento di animali, ma è

un prodotto che replica in laboratorio carne, pesce e uova. La tecnica consiste nel prelevare cellule muscolari e nutrirle con proteine che aiutano la crescita del tessuto. Una volta che il processo è partito, teoricamente è possibile continuare a produrre carne all’infinito, senza aggiungere nuove cellule da un organismo vivente

I benefici, come abbiamo detto, sarebbero parecchi. Se per un chilo di carne bovina servono in media 11’500 litri di acqua, secondo Environmental Impacts of Cultured Meat Production, per la stessa quantità di carne coltivata sono sufficienti circa 500. Lo studio dimostra anche che la percentuale di utilizzo del suolo si riduce del 99%. Per quanto riguarda il sapore e la genuinità del prodotto è stato provato che si tratta di carne a tutti gli effetti. Dal punto di vista cellulare, infatti, la carne coltivata è costituita da cellule animali esattamente come la carne allevata. Anche a livello di DNA. Ciò che cambia è il processo di sviluppo e crescita del prodotto, dato che le cellule staminali sono moltiplicate da un bioreattore.

Fiamma Franchi

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