Nel giorno di San Valentino siamo soliti celebrare l’amore romantico, la tenerezza, l’eros. Trascuriamo, invece, una forma d’amore altrettanto importante. Quello per la vita: la meraviglia di essere vivi. Eppure, esattamente 103 anni fa, il poeta Giuseppe Ungaretti scriveva Allegria di naufragi: uno degli inviti più impavidi a questo amore mai scritti.
Il 14 febbraio 1917 a Versa (Gorizia) Giuseppe Ungaretti componeva una delle sue liriche più conosciute: Allegria di naufragi.
E subito riprende
Il viaggio
Come
Dopo il naufragio
Un superstite
Lupo di mare.
Cosa significano questi sei versi serratissimi, scabri, tutti costruiti sull’enjambement?
Per rispondere a questa domanda occorre prestare ascolto al poeta, provando a comprendere come Ungaretti intendesse la vita e la poesia.
Quel costante naufragio che è la vita
Nel 1919 la lirica intitolò una seconda edizione delle poesie di Ungaretti fino ad allora pubblicate. La prima edizione, qui ricompresa, era uscita nel 1916 come Il porto sepolto. A queste due raccolte il poeta rimarrà affezionato per tutta la vita, come testimonia in un’intervista rilasciata poco dopo l’ottantesimo compleanno. Riguardo il titolo Allegria di naufragi – cambiato nel 1931 in L’Allegria – Ungaretti spiega:
L’Allegria è un titolo ironico. Ma insomma, la poesia c’è comunque, anche nel naufragio. E forse anche tutta la vita umana è un costante naufragio.
Il naufragio è una metafora ripresa, limitandoci alla tradizione italiana, da Leopardi quanto dall’interpretazione dantesca del mito di Ulisse. Dicendo la vita come “naufragio”, Ungaretti intende richiamare l’attenzione sulla precarietà di tutto ciò che viviamo. Di ogni affetto e bene che, con presunzione, crediamo nostro per sempre. Tutto, secondo il poeta, è naufragio, perché ogni cosa può essere travolta dagli eventi.
“Allegria di naufragi” è, dunque, la poesia.
Mentre Ungaretti era al fronte durante la Prima Guerra Mondiale, la poesia conservava in lui l’umanità e la consapevolezza di essere vivo. Lo teneva attaccato alla vita. Infatti, spiega Ungaretti nella stessa intervista,
la poesia in quelle tremende ore mi liberava, pur esprimendo la mia sofferenza. Mia e di quelli che con me soffrivano, in presenza e con la costante minaccia della morte.
Scrivere sulle cartoline in franchigia, sui margini vuoti delle lettere, sulle confezioni delle pallottole, rispondeva a un’esigenza insopprimibile. Occorreva farlo, come sarebbe occorso farlo in futuro. Perché, secondo Ungaretti, non è la vita ad alimentare la poesia, bensì il contrario. È la parola poetica, frutto di un instancabile scavo del poeta dentro se stesso, a far fiorire ciò che nomina.
«La limpida meraviglia di un delirante fermento»
Ungaretti esprimeva questa concezione della poesia già nei versi centrali dell’ultima lirica della raccolta del 1916, Commiato, scrivendo:
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento
Mettere ordine nel caos infondendo pura vita: è questo il potere della poesia. Eppure, dichiarava il poeta in un’altra intervista,«la poesia è poesia solo quando porta in sé un segreto». Infatti, per Ungaretti,
La parola è impotente. Non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi. Soltanto, lo avvicina.
Avvicinandolo, però, la poesia ci rende sensibili a esso. Così, la parola con la quale il poeta riemerge, come un minatore, dalle profondità insondabili della propria anima, funziona come un talismano. Essa non può spiegarci come vivere, ma può farci intuire – attraverso le immagini vivide costruite soprattutto per analogia – verità essenziali.
Il mondo che vorrebbe un poeta
Alla domanda «come vorrebbe che fosse il mondo?» Ungaretti rispondeva:
Io non vorrei vi fosse che il bene, ma sa, è un’illusione. Il bene è l’aspirazione di ogni uomo vero ma, fatalmente, il mondo è fatto di bene e di male. È fatto così e non c’è rimedio, un rimedio definitivo non è in mio potere. Io posso lavorare nel mio piccolo perché il bene prevalga.
E, in effetti, la poesia di Ungaretti è evidentemente schierata con il bene. Non in senso politico, affatto, come fanno talvolta i romanzieri dei quali vi parlavamo qui; in senso etico ed esistenziale. Nelle sue poesie, Ungaretti dà voce alla meraviglia di essere vivi, alla fratellanza che accomuna gli umani oltre le differenze, alla comunione con la natura. Nel leggere la sua produzione, capita spesso di scoprirsi – anche solo per un attimo – , come scrive il poeta ne I fiumi,
docile fibra dell’universo.
Qual è, allora, il significato di questa poesia?
Esso si gioca, secondo me, non solo sulla similitudine, scolpita in un unico verso da quel «come». Prima ancora viene «E subito riprende il viaggio». Una metafora, bellissima, per il continuare a vivere, introdotta in modo sorprendente: con una congiunzione. Una congiunzione che, di fatto, non congiunge nulla: solo la nostra fantasia al moncone di una risposta rimasta sepolta. Eppure, una congiunzione che ci suggerisce che in fondo non importa cosa sia venuto prima, quale catastrofe ci abbia colpiti. «subito riprende il viaggio», se è nostro desiderio rimetterci in mare aperto: è da questa consapevolezza, figlia di un impulso vitale tenace, che scaturisce l’allegria.
“Nelle difficoltà, nel dolore, siate superstiti lupi di mare!”: questo l’invito che emerge dalla lirica.
Essa ci ricorda che non importa quanto siamo fragili al mondo, precari, esposti alle violenze del tempo e degli altri. Possiamo naufragare e inevitabilmente naufragheremo qualche volta, prima o poi. Allora potremo restare seduti sugli scogli dei nostri fallimenti a fissare l’acqua torbida della risacca. Oppure potremo rispondere al richiamo che la vita, con il suo orizzonte aperto, continuerà a lanciarci, come lupi di mare che non sanno separarsi dall’Oceano.
Ungaretti non avrebbe dubbi sulla scelta da compiere, anzi, la sua lirica sembra quasi riecheggiare un famoso passo di Samuel Beckett:
Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.
Così, a 103 anni dalla sua composizione, Allegria di naufragi continua a impartirci una lezione di coraggio. Fallire si può, si può soffrire, si può fare naufragio: è parte della condizione umana. Quel che non si può fare, mai, è rinunciare per questo a vivere.
Valeria Meazza