Romania: l’ascesa del partito Alleanza per l’Unione dei Romeni e del suo leader George Simion

Le implicazioni del populismo in Europa

Bandiera della Romania. Alleanza per l'Unione dei Romeni

Il 2024 sarà un anno elettorale, è stato detto tante volte, ma alcuni paesi porteranno i propri cittadini alle urne più spesso di altri: tra questi la Romania, che inizierà votando i propri rappresentanti in Europa per poi proseguire con le elezioni locali, politiche e infine con la scelta del Presidente Capo di Stato. A preoccupare gli analisti è l’ascesa del partito populista di estrema destra AUR (Alleanza per l’Unione dei Romeni) e del suo leader George Simion.

La rapida scalata di Alleanza per l’Unione dei Romeni

Il partito Alleanza per l’Unione dei Romeni nasce nel 2019 e nel giro di un solo anno, alle elezioni parlamentari del 2020, arriva a prendere il 9% dei voti (a fronte di un’affluenza del 32% scarso). I fondatori George Simion e Claudiu Târziu gravitavano intorno alla politica da diversi anni: il primo nei movimenti nazionalisti, il secondo in quelli ultraconservatori religiosi.

L’organizzazione antiabortista di cui era membro Târziu nel 2018 propose un referendum per modificare la Costituzione, in modo da rendere impossibile anche nel futuro la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. Il referendum non raggiunse il quorum.

Simion militava nei gruppi per l’unificazione di Romania e Moldavia, ragione per cui gli è stato vietato l’ingresso nella Repubblica di Moldavia come persona non grata, provvedimento recentemente riconfermato per altri cinque anni. Alleanza per l’Unione dei Romeni è la perfetta fusione delle anime dei suoi fondatori. Alla base del suo programma pone l’unificazione della Romania, operazione che cerca di portare avanti anche nella Repubblica di Moldavia con una sezione del partito omonima che resta però sotto l’1%.

Nel manifesto fondativo ci sono la difesa dei valori tradizionali, della famiglia, della religione, della sovranità nazionale e il rifiuto degli Stati Uniti d’Europa. Un programma che appare fondato più su generiche ideologie che su programmi concreti e che mira alla conservazione, così come dichiarato nelle sue pagine:

«Che ci piaccia o no, il nostro progetto Paese è lo stesso di 100 anni fa, è lo stesso di 500 anni fa. La riunione. Unità territoriale, unità nazionale, rispetto dei diritti di ogni cittadino, senza distinzione di etnia, religione, orientamento, condizione economica. Libertà. Questo è ciò che noi romeni siamo, questo è ciò che abbiamo sempre fatto, la libertà e l’unità. Non c’è bisogno di un altro marchio, non abbiamo un altro progetto nazionale.»

I sondaggi prevedono che Alleanza per l’Unione dei Romeni potrebbe raggiungere il 20% alle elezioni, soprattutto grazie ai voti dei Romeni all’estero, che alle precedenti votazioni l’hanno scelto in massa.

Qual è la situazione della Romania?

Eppure la situazione economica e politica della Romania richiederebbe l’adozione di politiche concrete. L’inflazione al 7,3% è la più alta di tutta l’euro zona e il doppio della media europea; la spesa alimentare a famiglia è cresciuta del 40% in soli tre anni. Anche il sistema sanitario necessiterebbe di riforme profonde. L’aspettativa di vita in Romania è tra le più basse dell’Unione e il sistema è tra i più corrotti del mondo occidentale, con pazienti che ancora infilano buste di soldi nelle tasche dei camici per garantirsi cure adeguate.


Un altro problema reale è quello dei fondi europei non spesi. Contrariamente alle narrazioni dei partiti euroscettici la UE, attraverso la politica di coesione, distribuisce fondi per colmare i divari infrastrutturali tra i membri. Nel periodo 2014-2020 la Romania ha avuto a disposizione 41 miliardi del budget europeo ma ne ha speso solo l’82%.

Le ragioni stanno nei maggiori controlli anticorruzione che accompagnano i progetti finanziati dall’Europa e nella complicata burocrazia comunitaria e nazionale. È un problema comune a molti Stati membri che diventa deleterio in quei contesti nazionali deboli, che più avrebbero bisogno dei fondi per migliorare la vita quotidiana dei propri cittadini.

Diritti in Romania

Secondo i rapporti di Amnesty International e di Freedom House la situazione dei diritti in Romania è difettosa ma non disperata; il termine tecnico sarebbe quello di democrazia imperfetta, lo stesso usato per l’Italia.

Vengono elencati come elementi a cui prestare attenzione: l’abuso della forza da parte della polizia, la repressione delle proteste e la discriminazione sistemica della popolazione Rom e della comunità LGBTQIA+.

Il popolo Rom in Romania subisce meno crimini d’odio rispetto al passato, ma continua a vivere al di sotto della soglia di povertà e ad essere discriminato in materia di accesso alle cure, all’istruzione, alle politiche abitative e all’occupazione.

La comunità LGBTQIA+ è tra le più discriminate d’Europa, il paese è tra i pochi rimasti nell’Unione Europea a non avere una legislazione per le unioni tra persone dello stesso sesso (insieme a  Bulgaria, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia). D’altronde l’omosessualità era criminalizzata fino al 2001.

Nonostante la condizione della comunità sia ancora a livelli di grave discriminazione e nonostante il fallimento del referendum del 2018, nella campagna elettorale di Alleanza per l’Unione dei Romeni ha fatto capolino la proposta di un nuovo referendum per modificare la Costituzione e aggiungere “esclusivamente da un uomo e una donna” nella definizione di famiglia alla base della società.

Le associazioni LGBTQIA+ hanno organizzato delle proteste evidenziando come siano stati spesi 32 milioni di euro per il primo fallimentare referendum che vide un’affluenza appena sopra il 20%. Farebbe quasi ridere se non fosse così tragico. Ma allora cosa attrae così tanto dei partiti populisti di estrema destra?

L’era del populismo 

Il partito Alleanza per l’Unione dei Romeni e il suo leader George Simion hanno incrementato la loro popolarità nel periodo della pandemia COVID. Così come tanti altri movimenti populisti europei hanno cavalcato il malcontento e il trauma collettivo causati dall’evento, incanalandoli in manifestazioni di protesta contro l’obbligo vaccinale e contro l’uso delle mascherine.

Non è un caso che la pandemia abbia dato una spinta propulsiva al populismo. È l’altra faccia della medaglia di una comunicazione pubblica che, in quasi tutti i paesi, ha parlato alle emozioni dei cittadini, utilizzando la paura invece della spiegazione razionale per giustificare le misure di contenimento.

Il populismo attrae perché offre soluzioni semplici a situazioni di crisi complesse, individuandone la causa univoca in un determinato gruppo sociale: le élite, i migranti, le comunità LGBTQIA+ e vari ed eventuali a seconda dell’occorrenza e spesso in maniera contraddittoria e incoerente.

La caratteristica vincente dei populismi è la comunicazione: diretta, semplice, fatta di slogan e di frasi facilmente condivisibili. Una comunicazione che funziona benissimo sui social network dove il rapporto con gli elettori non viene mediato dalle domande scomode dei giornalisti. Lo stesso George Simion ha costruito in pochi anni una presenza massiccia sui social e addirittura un’applicazione mobile per il partito AUR.

Istituzioni europee sempre più a destra

I partiti di estrema destra sono al governo in sempre più paesi europei e dove non lo sono avanzano nei sondaggi: dall’Olanda alla recente scalata di Chega in Portogallo. La vittoria di Alleanza per l’Unione dei Romeni aumenterebbe le possibilità che un blocco compatto di estrema destra diventi la seconda forza all’interno del Parlamento Europeo.

La preoccupazione per la tenuta democratica delle istituzioni europee aumenta dato che, nonostante una generica lotta alla protezione delle tradizioni, questi partiti hanno posizioni molto differenti tra loro in materie fondamentali come la guerra e la lotta alla crisi climatica. Di fronte a problemi sempre più globali è lecito domandarsi se un’Unione Europea più debole, fatta di stati che pensano esclusivamente all’interno dei propri confini nazionali, sarebbe in grado di affrontarli.

Un’altra dinamica scatenata dall’avanzata dell’estrema destra è quella dello spostamento del PPE dal centro verso la destra. Il Partito Popolare Europeo è da anni maggioritario nel Parlamento e le sue politiche sono state criticate per anni dai vari sovranisti, populisti ed estremisti. Nelle ultime settimane sembra aver modificato le sue posizioni su crisi climatica e migranti così da mettere d’accordo certi partiti di destra.

Da una parte il tentativo è quello di mettere un argine all’avanzata dei radicalismi, dall’altra un modo per mantenere elettori sempre più orientati verso politiche di destra. Il risultato è che questioni fondamentali come la crisi climatica, che non dovrebbe essere politicizzata né di parte, riceveranno sempre meno attenzione.

E la sinistra?

C’è qualcosa però che i partiti progressisti dovrebbero imparare da quelli di estrema destra ed è la loro capacità di fare rete, tra di loro, con le associazioni della società civile e con i media. Sono documentati da anni i contatti tra partiti di destra e confessioni religiose radicali, così come quelli tra partiti di paesi diversi. Una rete che è prima di tutto finanziaria ma anche, sempre di più, comunicativa con una propaganda che travalica i confini e si adatta con modifiche minime ad ogni contesto nazionale.

Le destre estreme vincono perché riescono a mobilitare persone profondamente deluse da una politica che le ignora da decenni. Ci riescono fornendo qualcosa in cui credere, un’appartenenza, un’identità. Qualcosa che i progressisti riescono a fare solo con ristrette fasce di popolazione, spesso privilegiate, che si riconoscono in un tipo nuovo di identità globale basata sulla centralità dei diritti umani.

Sarebbe il momento di rimettere in campo anche i diritti sociali e di ripensare il neoliberismo selvaggio degli ultimi decenni. Le sinistre dovrebbero trovare il modo per dialogare con queste fasce di popolazione escluse, prima che le sirene della propaganda nera diventino troppo forti da resistere.

Sara Pierri

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