Durante l’occupazione nazista di Milano, nel 1944, nasceva la lirica Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo. Cosa significa questa lirica? Si tratta davvero di una resa dei poeti all’atrocità della guerra?
1944. Milano è sotto l’occupazione nazista dal settembre 1943 ed è già stata teatro di barbarie. L’hanno colpita i rastrellamenti di ebrei, partigiani, oppositori politici, gli interrogatori, i pestaggi. Il 10 agosto, a Piazzale Loreto, l’episodio più crudo: 15 antifascisti detenuti a San Vittore pubblicamente fucilati, i corpi lasciati esposti come monito alla popolazione. Una rappresaglia per l’attentato ai danni di un camion tedesco compiuto dagli antifascisti in Viale Abruzzi due giorni prima, per costringere i milanesi che resistevano ad abbassare la testa. È in questo contesto che nasce la lirica Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo.
Alle fronde dei salici: una poesia sul silenzio che grida dolore e rabbia
Alle fronde dei salici – pubblicata dal poeta solo nel 1946 in rivista e nel 1947 nella raccolta Giorno dopo giorno – è una lirica paradossale. Perché i suoi versi parlano della scelta del silenzio da parte dei poeti, ma sono in realtà un grido di rabbia, di dolore, di impotenza. In questa lirica, infatti, il poeta scrive:
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Eppure, Quasimodo scrisse molto sia durante la guerra sia durante l’occupazione. Una forma di ipocrisia, una contraddizione, un paradosso? Niente affatto. Per comprendere appieno quel «e come potevamo noi cantare», occorre fare riferimento al Salmo 137, testo cui Alle fronde dei salici s’ispira.
Il Salmo 137: i poeti ebrei e la cattività babilonese
Scritto dopo il 587 a.C., anno della caduta di Gerusalemme e della deportazione degli Ebrei a Babilonia, nel salmo si legge:
1 Là, presso i fiumi di Babilonia,
sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion.
2 Ai salici delle sponde avevamo appeso le nostre cetre.
3 Là ci chiedevano delle canzoni quelli che ci avevano deportati,
dei canti di gioia
quelli che ci opprimevano, dicendo:
«Cantateci canzoni di Sion!»
4 Come potremmo cantare i canti del Signore
in terra straniera? […]
Come risulta evidente dal versetto 3, il «cantare» di cui si sta parlando non è generico, ma molto specifico: è il cantare per l’oppressore, intrattenerlo con le proprie canzoni. I cantori ebrei, sdegnati da questa richiesta, appendevano per protesta i propri strumenti all’albero del pianto. Perché non ha senso cantare per qualcuno che non può né vuole comprendere ciò che si canta, come usignoli in gabbia per lo sciocco piacere altrui.
Se si confronta con il testo cui s’ispira, diventa evidente che Alle fronde dei salici non è un semplice lamento. Non è la dichiarazione d’impotenza di un poeta a cantare un reale atroce. Né la confessione che è inutile scrivere, che la poesia né serve né basta. Si tratta, invece, di una presa di posizione poetica e civile fortissima. Cioè dell’espressione forte e chiara del rifiuto a cantare per l’invasore. E del disprezzo per chi, come gli intellettuali che avevano appoggiato il regime, aveva prostituito la propria arte.
Giorno dopo giorno: la disperazione e la speranza
La cetra del poeta, dunque, è appesa alle fronde dei salici per solidarietà verso chi soffre e nel rifiuto di cantare per l’oppressore. Eppure, la sua coscienza non tace. Anzi, continua a interrogarsi e interrogare l’altro nell’atrocità della guerra. Le risposte, difficili e mai definitive, oscillano tra disperazione e speranza.
Questo movimento, in particolare, è evidentissimo nella raccolta, Giorno dopo giorno, che proprio Alle fronde dei salici inaugura. La lirica conclusiva, Uomo del mio tempo, esprime tutto l’esterrefatto orrore del poeta per le atrocità cui ha assistito. E, con esso, la convinzione che l’umanità attuale sia corrotta fino al midollo. Infatti, nella poesia Quasimodo scrive:
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Eppure, rimane una piccola speranza. Cioè che i figli dimentichino la lezione dei padri e scelgano, come si legge negli ultimi versi, di riconoscerne gli errori e percorrere una strada diversa:
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Alle fronde dei salici e oltre: la poesia contro la guerra
È impossibile, oggi, leggere poesie come Alle fronde dei salici o Uomo del mio tempo e non pensare a quanto sta avvenendo in Ucraina. Ora come allora, è vero quanto si legge nella lirica Forse il cuore, in cui Quasimodo scrive:
[…] Le parole ci stancano,
risalgono da un’acqua lapidata;
forse il cuore ci resta, forse
il cuore…
E se solo il cuore ci resta, che le cetre dei poeti restino appese in silenzio alle fronde dei salici è vero e giusto solo a metà. Perché se il cuore, che si ritrae orripilato dalla prospettiva della guerra, è ciò che ci resta, è più urgente che mai coltivarlo. Anche con la poesia.