L’alfanizzazione di Luigi di Maio

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C’è chi nasce Berlusconi e chi nasce Angelino Alfano. C’è chi nasce Matteo Salvini e chi punta a essere ancora Angelino Alfano. Ecco un’analisi del fenomeno che sta colpendo il governo: l’alfanizzazione di Luigi di Maio.

Il ruolo della stampella in politica è fondamentale. C’è chi nasce con il consenso dalla parte del manico e chi invece si deve accodare, per tenersi qualche poltrona e giocare al compromesso per sé, per i propri eletti e per i propri elettori. Magari, se è bravo a fare la stampella, riesce pure a battere i pugni sul tavolo e a far promuovere al governo a cui collabora qualche punto della sua campagna elettorale: un fenomeno che potremmo chiamare “alfanizzazione“.




Bizzarro però è il caso di chi parte, alla luce dei risultati elettorali del 2018, come socio di maggioranza del governo e, in un anno, perde tutto o quasi. Parte come trascinatore e finisce a fare la stampella. Tra l’altro neppure tanto utile, nel caso in cui il leader del governo non abbia alcun bisogno di appoggiarvisi.

La lungimiranza di Di Maio

La stampella in questione è Luigi di Maio, vice premier del governo Conte e ministro del lavoro, delle politiche sociali e dello sviluppo economico. Una stampella sempre più abbandonata in un angolo, a dire il vero, con il miglioramento delle condizioni di salute politica dell’assistito Matteo Salvini. In poco meno di un anno, incredibilmente, il ruolo di stampella e assistito si sono invertiti. Sembrano passati anni dalle consultazioni 2018, quando Luigi di Maio si è potuto concedere il lusso di scegliersi un alleato di governo, forte del suo 32%. Con la lungimiranza che lo contraddistingue, Di Maio ha però deciso di riporre la sua fiducia nella Lega, illudendosi di riuscire a contenerla, non potendo sconfiggerla.

Un po’, come a suo tempo, il PCI cercava di fare con la Democrazia Cristiana

No, d’accordo, anche solo l’accostamento tra Berlinguer e Di Maio è un azzardo non da poco. Il paragone più calzante, appunto, è quello che mette Luigi di Maio a confronto con la figura politicamente più mesta di Angelino Alfano. L’alfanizzazione trae appunto origine dalla carriera del Ministro della giustizia nel quarto governo Berlusconi, poi ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio dei ministri nel governo Letta. Riconfermato ministro dell’Interno con il governo Renzi, Alfano è stato poi nominato ministro degli Affari Esteri con il governo Gentiloni. Nel suo curriculum può vantare anche il ruolo di segretario nazionale del PDL (primo e ultimo, tra l’altro).

Ripercorriamo la sfolgorante carriera di Alfano

Anche Alfano, come il nostro eroe Di Maio, porta con sé un ricco bagaglio di gaffe (ad esempio quando usò lo slogan di Sinistra e Libertà per se stesso), incidenti diplomatici (ricordate il caso Shalabayeva?), avventatezze (“Individuato l’assassino di Yara Gambirasio”) e molteplici “non sapevo”.

L’alfanizzazione, per come si sta manifestando, merita però alcune precisazioni. Al contrario dell’attuale ministro, bisogna spezzare una lancia a favore dell’ex guardasigilli: Alfano non ha mai avuto un successo elettorale che gli permettesse di fare la parte del leone nei vari governi a cui ha lavorato. Ha debuttato all’ombra di Berlusconi come più giovane ministro della Giustizia e, per ricompensare la fiducia del suo presidente, ha firmato il Lodo Alfano, per la sospensione dei processi a carico delle quattro più alte cariche dello Stato, tra cui il Presidente del Consiglio. Quando è avvenuta la scissione con Berlusconi, Alfano aveva già la sinistra pronta ad accoglierlo nei governi Letta, Renzi e Gentiloni come figura di compromesso per il governo delle larghe intese. Con una significativa intraprendenza, infatti, aveva fondato il Nuovo Centro Destra che ha rischiarato il firmamento politico italiano per ben quattro anni. Nel frattempo Berlusconi, tradito dal suo delfino, non ha perso occasione di stroncarlo pubblicamente come leader politico. Insomma: una carriera politica un filo opportunista, basata sulla consapevolezza dei propri limiti.

Luigi di Maio, invece, è un Alfano che non ce l’ha fatta





Se infatti i due possono essere paragonati per il loro seguire la corrente, a Di Maio bisogna imputare comunque colpe politiche ben più gravi. Innanzitutto, un ideologico tradimento dei propri elettori nel darsi in pasto alla Lega, partito che ha letteralmente cannibalizzato il Movimento Cinque Stelle. Ma questo evidentemente agli elettori pentastellati va ancora bene, visto che dopo le elezioni europee, la piattaforma Rousseau ha espresso la riconferma della fiducia a Di Maio come capo politico del Movimento con un compatto 80% dei voti.

Un anno da parafulmine

Nonostante la fiducia del suo elettorato, però, l’aver formato un governo con Matteo Salvini non ha avuto poche conseguenze. Luigi Di Maio, nella fase più acuta dell’alfanizzazione, si è dato in pasto a un leader che ama appuntarsi alla giacca medaglie per se stesso e scaricare colpe e responsabilità sugli altri. Salvini sa prendersi i presunti meriti di aver ridotto gli sbarchi ufficiali (non quelli fantasma, però, sempre in aumento). Di Maio si tiene le colpe legate all’inefficienza del reddito di cittadinanza.





A volte fanno il gioco delle parti: si punzecchiano a distanza, vengono redarguiti in modo abbastanza strampalato dal presidente del Consiglio in una pittoresca conferenza stampa, e ritornano ai loro affari. In questi, Di Maio è sempre più concentrato ad assumere il ruolo di parafulmine del governo Conte, distanziandosi ogni giorno da Salvini con le dichiarazioni, per poi avvallarne l’operato nei fatti.

L’egemonia degli alleati

Tratto fondamentale dell’alfanizzazione è la consapevolezza della mancanza di carisma per essere un vero leader. Se a impedire ad Alfano però di spiccare il volo era l’egemonia degli amici, qui è invece l’egemonia del “nemico” Salvini: entrambi, Di Maio e Alfano, messi alle strette di fronte agli eventi e agli scandali, si sono distinti per non prendere mai una posizione netta e, così facendo, si sono guadagnati il titolo di capri espiatori dei loro governi. Di Maio, proclami strampalati a parte, (“Chiederemo l’impeachment per Mattarella”), prende tempo e mai posizione sulle richieste dell’alleato ostile:  “La flat tax? Se il ministro Tria dice che ci sono le coperture io ci sto. L’autonomia? Si farà, ma rispettando la coesione nazionale”. Perfino sulla Tav, con mesta rassegnazione, Di Maio rimette tutto alla volontà di Giuseppe Conte (“Il dossier è nelle mani del premier”). Capolavoro benaltrista, invece, la dichiarazione sui fondi russi: “Mah, meglio i russi dei petrolieri”.

Chiamiamolo “senso di responsabilità”

Da un partito che ha debuttato come forza rivoluzionaria e dirompente, emerge oggi una svolta rassegnatamente moderata e intimorita. Il Movimento Cinque Stelle  sembra barricarsi dietro i vuoti pretesti del senso di responsabilità e della mancanza di alternative. Esattamente come faceva la vecchia politica. Esattamente, neanche a dirlo, come faceva Angelino Alfano.

Elisa Ghidini

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