Alessandro Circoli nasce a Trieste cinquantaquattro anni fa. Il suo è un caso di malasanità tra i tanti del nostro paese.
Lo conosco passeggiando sul Molo Audace, io col mio cane, lui con le sue stampelle. Lo osservo: è un uomo di bassa statura, indossa una canottiera a coste verde, fa molta fatica a camminare, trascina il piede destro e a stento alza il sinistro, senza l’aiuto delle stampelle cadrebbe.
È affascinato dal mio cane, mi dice che è bello, che vorrebbe accarezzarlo. Temo che abbassandosi potrebbe cadere. Gli chiedo se ha bisogno di aiuto.
Quel che mi colpisce subito è la sua lentezza: mi spaventa. Quel che mi colpisce appena dopo è la sua tenacia nel compiere un passo dopo l’altro. Mi dice che vuole arrivare fino alla fine del molo, dove c’è la rosa dei venti e mi chiede se mi va di tenergli compagnia. Immagino che impiegheremo molto per compiere una passeggiata di duecentocinquanta metri, ma ho tempo.
Gli chiedo se è di Trieste. Mi dice di sì, che per quasi vent’anni ha vissuto in Veneto dove lavorava come centralinista in una casa di riposo, aveva una moglie e dei figli, ma dopo il divorzio ha deciso di tornare nella sua città, nella città del mare che ama tanto. Ha chiesto il pre pensionamento. Sguinzaglio il cane che segue il nostro passo, lui ride perché gli si accosta alla gamba, mi chiede come si chiama e mi dice di essere Alessandro.
Dopo le presentazioni, gli chiedo cosa gli è accaduto, se ha avuto un incidente o cosa. Mi sorride e noto che è un bell’uomo. No, non ha avuto alcun incidente, è così da poco dopo che è nato.
La storia di Alessandro è una di quelle che fa davvero arrabbiare e commuovere, una volta che la conosci.
Alessandro è nato all’ospedale Maggiore di Trieste, un giorno di novembre, è uno scorpione, ci tiene a precisare. «E tu?».
Poi, mi chiede cosa penso delle infermiere e gli rispondo che per me sono delle sante. Lui controbatte dicendo che non lo erano quelle che erano presenti alla sua nascita.
Alessandro è nato quaranta giorni prima del temine previsto. Un bambino in miniatura, ma fisicamente perfetto. Le infermiere che dovevano occuparsi di lui, non avevano il coraggio di vestirlo perché era troppo piccolo.
«Mia madre si ricorda bene di lei che urlava di vestirmi e di loro che non sapevano come fare, lasciandomi a lungo nudo sul lettino, per quasi un’ora, perché tutte le incubatrici erano occupate».
Le infermiere non sapevano come vestire un bambino perché troppo piccolo, avevano paura di farlo. Le incubatrici, finite.
«Da lì, sono entrato in coma, complice una bronchite, e vi sono rimasto diciotto giorni. Mia madre dice che sono nato due volte: il tredici novembre e quando sono uscito dal coma».
Un passetto dopo l’altro, arriviamo alla fine del molo. Venti minuti di cammino. Vorrebbe sedersi sui gradini per poter essere più vicino al mare. Lo aiuto perché da solo non riesce. Si aggrappa al mio braccio e con cautela ci abbassiamo. Non faccio molta fatica, il mare ci bagna le suole delle scarpe. Il mio cane si avvicina così lo accarezza. Chiude gli occhi.
Gli chiedo come riesce a vivere così, mi risponde che non sa come altro vivere, così è nato. Provo a immedesimarmi e capisco che non si tratta di una gamba rotta… quello avrei potuto capirlo, non oltre.
Alessandro vive da solo, in una palazzina del quartiere di San Giacomo, quello più povero e colorito della città. Sta a un primo piano senza ascensore, nonostante il reddito basso, non gli danno la casa popolare perché è tornato a Trieste da meno di cinque anni, in piena pandemia, che ha trascorso con due amici che era andato a trovare proprio il fine settimana della chiusura.
Ha deciso di abbandonare il Veneto durante il lock down, ha purtroppo rifiutato di vaccinarsi proprio per la sua storia, che gli impedisce di fidarsi della medicina e del personale medico tutto.
«È causa loro, di fatto, se ho una paraparesi spastica».
Avrebbe avuto senso rispondergli che tutti possono sbagliare?
Vedo che ha tatuata un’ancora sul braccio e indossa una collana con un ciondolo a forma di delfino.
Gli chiedo se è molto legato al mare, mi dice di sì e che una volta ha letto che il mare sistema l’anima, che quel giorno era al molo proprio per quello, e che sogna di prendersi un piccolo tender su cui vivere, anche se non sa nuotare, anzi, sa farlo solo se aggrappato a qualcuno, che potrebbe farsi aiutare da suo padre, ma che è anziano e dai suoi proprio non vuole tornare e che vuole trovare una donna che non sia una prostituta, vuole una donna da baciare, con cui dormire e che lo ami.
Alessandro è un uomo pieno di sogni, che la sua disabilità non gli ha impedito di avere. Ha scritto un libro, gioca a basking (detto anche basket inclusivo), ama il caffè, la birra, Sergio Bambaren, il cinema, ha avuto una moglie, un matrimonio burrascoso, fa tutto, solo con estrema lentezza, trascinandosi, spesso con molti dolori e necessitando un appoggio.
Quando decidiamo di tornare, chiediamo aiuto a un ragazzo per permettergli di alzarsi.
Camminiamo per tornare verso la strada, da lì avrebbe chiamato un taxi convenzionato per fare ritorno a casa. Il comune gli dà trecento Euro al mese per potersi spostare, gli dà anche a disposizione dieci spettacoli teatrali, gli dà l’autobus gratis, ma non lo aiuta a trovare un appartamento al piano terra o con l’ascensore.
«C’è una casa popolare di fronte a dove vivono i miei amici, vuota da anni, ho chiesto se potevo prenderla, ma il problema è sempre lo stesso, sono residente in città da troppo poco. Lo stesso vale per un palazzo vicino a casa. Anche se sono nato qua, ho una disabilità molto grave, un’entrata di appena mille euro, non basta. Ero perfino disposto ad andare in un appartamento di un palazzo popolare dove vivono solo tossici, pur di avere un ascensore, ma niente».
Alessandro vive in affitto da un’amica di famiglia, ha un contratto per cui dovrebbe pagare duecentottanta euro, ma la signora gliene chiede trecentoventi.
«Dice che altrimenti va tutto in tasse».
Ha dovuto risistemare gli scarichi del bagno per potersi lavare, ha dovuto risistemare gli scuri delle finestre per non farle sbattere quando c’è bora, ha gli sportelli della cucina che rimangono aperti.
So questo perché lo accompagno a casa: voleva regalarmi il suo libro. Entrando nel palazzo, vedo che ha fatto aggiungere un corrimano per poter salire le scale. A sue spese, naturalmente. I genitori vivono con la pensione del padre, sua madre si è rovinata le mani facendo la sarta, sempre in nero.
Vedo come fa le scale, come muove e trascina i piedi, gli porto le stampelle, per entrare in casa, c’è una porta semi blindata, una porta che lui può aprire solo tenendosi aggrappato al muro e rischiando di cadere, perciò, dato che la serratura è vecchia e a molle.
Entriamo in casa, mi dice di prendere dallo scolapiatti una terrina per dare da bere al cane e lo aiuto a fare un caffè.
Gli chiedo come sia possibile che lui viva lì, che nessuno faccia qualcosa.
«Perché è più comodo sapere senza vedere» – risponde.