“Una buona eroina è un’eroina morta”, scriveva Susan Brownmiller.
Quando un uomo ti ammazza, diventi una santa. Una moglie fedele, una madre esemplare, una donna angelicata. Al tuo funerale ti mettono in una bara bianca, fanno la veglia con le candele, l’applauso e a volte lanciano nel cielo i palloncini. Sei brava solo quando tuo marito o il tuo ex ti strangola, ti spara, ti accoltella, meglio ancora se ci sono dei poveri bambini di mezzo. Però. Ci sono dei però.
Ad esempio, se sopravvivi, un giornalista può dirti che “sei fortunata”. Sei fortunata tu, che sei stata quasi uccisa da tuo marito che ha cercato di ammazzarti perché non gli hai lavato la divisa di calcetto. Poi comincia il processo, a te e non a lui: ma perché stavi con uno così, ma perché non te ne sei andata, ma come hai fatto a non accorgerti di niente.
Ad esempio, se sei stata tu a provocare la tua morte, perché hai tradito, hai rifiutato, eri lesbica, hai detto no, avevi la minigonna, eri una prostituta, eri una persona che viveva in modo strano o diverso dalla norma. In quel caso, è colpa tua. La tua storia non piace così tanto, forse a te daranno una bara normale, e la tua storia non diventerà una fiction Rai.
Al mondo piacciono le donne solo quando sono morte, ma morte come si deve. Quando sono vive, ogni loro fiato deve passare al vaglio della cultura dominante.
Ogni azione che devia anche di un solo passo da quello che ci si aspetta che faccia una donna è sbagliata. La morte è una punizione per le donne, una punizione tramite la quale ogni loro peccato viene assolto, per ascendere nel cielo delle donne morte e sante. Ma alcune hanno peccato troppo: dicendo no, o avendo l’ardire di sopravvivere all’uomo che le voleva ammazzare, o farle ammazzare.