Vertice sul clima di Nairobi, in Africa l’Ue punta sulla svolta “green” ma l’ostacolo principale resta il debito

l'ostacolo principale resta il debito

A young Somali girl walks through an IDP camp near the town of Beletweyne, Somalia, on May 28, 2016. More than 17,000 people have been displaced by flooding in the Hiraan region of Somalia, which has caused the Shabelle river to break its banks. AMISOM Photo / Tobin Jones. Original public domain image from Flickr

Il primo vertice sul clima organizzato in Africa si è concluso con l’adozione della “dichiarazione di Nairobi” che mira a sottolineare il potenziale del continente come centrale energetica verde. Nei prossimi anni, in Africa si giocherà la partita del futuro del mondo e anche l’Unione europea non vuole farsi trovare impreparata. Bruxelles ha già annunciato un miliardo in green bond e una strategia per l’idrogeno verde con il Kenya. Ma il continente nero viaggia a più velocità: mentre molti Paesi africani sono in prima fila nella transizione energetica, altri continuano a sfruttare le riserve di combustili fossili, e poi c’è il problema del debito pubblico, riesploso dopo la pandemia, che resta l’ostacolo principale allo sviluppo dell’Africa.

Potenzialità enormi, ma pochi investimenti da parte di paesi stranieri realmente interessati al benessere delle comunità locali e dell’ambiente circostante con il debito pubblico che resta l’ostacolo principale per lo sviluppo economico.  E’ così che si è presentata l’Africa al summit sul clima di Nairobi, il primo vertice in materia organizzato nel continente nero e nel corso del quale i paesi coinvolti si sono ritrovati  a discutere di energie rinnovabili e sostenibilità, dimostrandosi puntualmente in contrasto fin dall’inizio circa la direzione da seguire per il futuro dell’Africa.

L’africa è un continente a più velocità, in cui è difficile trovare una soluzione comune che vada bene alla maggioranza degli stati, soprattutto quando si parla di transizione energetica e investimenti stranieri. Da un lato ci sono i cosiddetti paesi “virtuosi” che hanno scommesso nella transizione energetica come il Kenya di William Ruto, l’Egitto di Al- Sisi e il Sudafrica di Cyril Ramaphosa. Dall’altro lato, a fare ostruzionismo ai primi, troviamo quei paesi che non sono disposti a rinunciare allo sfruttamento delle proprie riserve di gas e petrolio come la Nigeria e il Senegal. Nel mezzo, tutti gli altri che vorrebbero portare avanti entrambe le posizioni per ottenere un miglioramento  in termini di crescita economica, garantendo alla propria popolazione un maggiore accesso all’energia nei prossimi anni.

Pur essendo il continente meno responsabile  dell’inquinamento sul pianeta (produce circa il quattro per cento delle emissioni), l’Africa resta comunque il più colpito dagli effetti del riscaldamento globale di origine antropica. Prova ne è il fatto che la crisi alimentare e idrica, indotta dal cambiamento climatico, ha peggiorato drammaticamente gli esistenti livelli d’insicurezza alimentare nella zona del Corno d’Africa, esponendo 14,6 milioni di africani al rischio di malnutrizione e  morte per carenza di cibo.

La svolta green del Kenya

Il Kenya è in prima linea nel percorso verso la transizione energetica, con il presidente William Ruto che insegue il sogno di trasformare l’Africa da continente soggiogato dai cambiamenti climatici ad avanguardia per la transizione energetica verde.  Oggi, il Paese  ricava il 93% della sua energia da fonti rinnovabili e ha vietato i sacchetti di plastica monouso. Inoltre, il governo kenyota ha deciso di dotare oltre 100mila moto tassisti di automezzi elettrici nei prossimi anni.


Sulla stessa strada di Nairobi ci sono anche Egitto, Etiopia e Sudafrica ma tutti questi paesi devono fare i conti con il muro alzato da quelle nazioni che non intendono rinunciare allo sfruttamento delle proprie risorse fossili come la Nigeria che dispone ancora di buone scorte di greggio e gas naturale. Stesso discorso vale anche per il Senegal, che negli ultimi anni ha fatto significative scoperte di queste materie prime.

Tra i due estremi si collocano poi quei paesi che negli ultimi anni sono stati destinatari di significativi investimenti stranieri nel campo delle energie rinnovabili ma non hanno mai abbandonato l’esplorazione dei rispettivi giacimenti petroliferi nazionali come nel caso della Namibia.

Le promesse d’investimento dell’Ue e degli Emirati arabi Uniti

In Africa, le consuete divergenze interne tra i paesi più “virtuosi” e attenti alla transizione energetica e quelli che intendono esaurire le proprie riserve di combustile fossile prima di investire nella svolta green, sembrano neutralizzarsi a vicenda quando c’è da rispondere alle frustranti richieste di organizzazioni internazionali e stati stranieri che esigono una velocizzazione da parte dei singoli paesi verso le energie rinnovabili, nonostante il continente africano non rappresenti esattamente un gigante nelle emissioni globali.

Nel 2020 i Paesi più ricchi hanno concesso a quelli in via di sviluppo più di 83 miliardi di dollari in finanziamenti per il clima, con un aumento del 4% rispetto all’anno precedente. Cifra che resta comunque molto al di sotto dei 100 miliardi annui inizialmente stabiliti al vertice COP15 di Copenaghen nel 2009.

In occasione del summit di Nairobi, i leader politici dei paesi africani – guidati dal presidente Ruto – hanno definito uno stanziamento di ventitré miliardi di dollari «per la crescita verde, la mitigazione e gli sforzi di adattamento» alla crisi climatica, cercando per quanto possibile di emanciparsi dagli investimenti stranieri.  Questi soldi saranno destinati a nuovi impianti solari, progetti di riforestazione e iniziative nel mercato dei permessi di emissione di anidride carbonica.

Dal canto suo, l’Unione europea, che non vuol perdere altro terreno in Africa, ha annunciato attraverso la presidente della commissione europea, Ursula Von der Leyen, che metà del piano di investimenti da 300 miliardi di euro, denominato Global Gateway, sarà destinato al continente africano. Bruxelles punta a diffondere tra la popolazione africana un’immagine dell’Europa che sia diversa rispetto a quella del passato: di un insieme di ex potenze coloniali interessate a depredare le ricchezze del continente africano. L’Ue stanzierà anche 1 miliardo di euro di green bond, insieme alla Banca europea per gli investimenti e gli Stati membri Ue, nel piano “Global Green Bond Initiative”, “per ridurre il rischio degli investimenti privati nei mercati emergenti”.

Ma la potenza di fuoco messa a disposizione dall’Ue sul piano degli investimenti è destinata ad essere superata dagli Emirati Arabi Uniti, che hanno annunciato il primo impegno finanziario a favore del continente nero: 4,5 miliardi di dollari in energia pulita.

Per il sultano Al Jaber, a capo della compagnia petrolifera nazionale Adnoc e della compagnia governativa di energia rinnovabile Masdar,  l’impegno economico degli Eau “scatenerà la capacità dell’Africa di raggiungere una prosperità sostenibile”.

In Africa, l’Ue si trova in una posizione di evidente svantaggio rispetto ai paesi arabi per almeno due ragioni. Innanzitutto, perché le potenze arabe subentrate nel continente possono contare non sui miliardi di dollari derivanti dalle esportazioni di gas e petrolio. E poi perché la dilagante crisi della democrazia e la conseguente perdita di leve diplomatiche da parte delle nazioni europee nel continente, come testimoniato dal colpo di stato in Niger e dalla rovinosa ritirata della Francia dal Sahel, hanno finito con l’allineare molti paesi africani al modus operandi  di regimi illiberali come quello cinese, russo e delle monarchie del golfo persico.

I “carbon credit” e il muro del debito pubblico

Uno dei temi fondamentali nel summit ha riguardato l’istituzione di un sistema globale di tassazione del carbonio, fortemente voluto dal presidente del Kenya Ruto, ma anche da Von der Leyen. La discussione intrapresa durante il vertice si è concentrata sull’Africa Carbon Markets Initiative (ACMI), iniziativa lanciata durante la Cop27 nel tentativo di espandere le attività di compensazione del carbonio nel continente, che mira a produrre 300 milioni di crediti di carbonio all’anno entro il 2030, sbloccando 6 miliardi di dollari entro il 2030 e più di 120 miliardi di dollari entro il 2050.

Tuttavia, la principale preoccupazione dei Paesi africani ha riguardato l’ostacolo del debito pubblico, riesploso negli ultimi anni e legato in maniere indissolubile alla lotta contro il cambiamento climatico, come sottolineato anche dal presidente Ruto durante il suo intervento al summit.

Non più tenuto a freno da una crescita economica progressiva, il rapporto tra debito e Pil in Africa nel suo complesso era già cresciuto in maniera netta, seppur graduale, dal 39,5% del 2011 al 61,3% del 2019, stabilizzandosi però nel triennio 2017-19. Ma con la Pandemia da COVID19 l’indebitamento è naturalmente tornato ad aumentare in Africa come in ogni altra parte del mondo.

Il problema del debito fuori controllo in Africa e la transizione energetica sono effettivamente collegati tra loro poiché negli ultimi anni le mancate compensazioni da parte dei paesi più inquinanti hanno pregiudicato fortemente lo sviluppo di infrastrutture essenziali per generare energia pulita nel continente. Inoltre, i paesi più ricchi non sempre hanno garantito un sostegno efficace agli stati africani rassicurandoli sulla futura sostenibilità del debito contratto.

Per i paesi africani i costi di indebitamento sono superiori di 8 volte rispetto alle economie europee, e di 4 volte rispetto agli Stati Uniti. In questo continente il debito estero ammonta a 1,13 trilioni di dollari e l’importo speso per il pagamento degli interessi è superiore alle spese per istruzione e sanità. 

Molti dei creditori privati (obbligazionisti e banche) che detengono il 62% del debito pubblico estero dei paesi africani, operano in paesi ricchi i cui governi spingono affinché l’Africa velocizzi la propria svolta green.

Nel corso degli ultimi due decenni,  la composizione del debito africano è andata modificandosi, e tra i Paesi creditori sono subentrati nuovi protagonisti non appartenenti al Club di Parigi (un raggruppamento informale che raccoglie Paesi ricchi creditori delle economie emergenti o in via di sviluppo quando si impone la necessità di rinegoziazioni dei debiti), uno su tutti la Cina che ha trasformato il gioco del debito in una trappola per molti paesi africani. 

Non solo per l’Africa ma per tutti i paesi in via di sviluppo, la riduzione del debito rappresenta quindi l’unica strada sicura per uscire dal vicolo cieco della povertà e della dipendenza dagli investimenti esteri, finalizzati a rendere il fruitore del prestito sempre dipendente dal proprio benefattore. Senza una strategia efficace su questo tema cruciale,  le proposte presentate dagli enti internazionali  durante il vertice di Nairobi, rischiano di  promuovere un’agenda che continua a mettere in primo piano sempre e soltanto la posizione e gli interessi dell’Occidente, perseverando in un circolo vizioso che incoraggia le nazioni ricche e le grandi aziende a continuare a inquinare il mondo nascondendosi dietro a un ‘green-washing’ di facciata che sposta l’onere interamente sulle popolazioni africane. 

Tommaso Di Caprio

 

 

 

 

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