Gli immigrati provenienti dall’Africa e risiedenti in Italia e in Europa sono moltissimi e spesso vittime di strumentalizzazioni, propaganda ideologica e retoriche pregne di neo-colonialismo. Adam Cerecere, giovane studente de L’Orientale di Napoli originario del Mali, è uno di loro: diviso fra attivismo e lavoro, grazie alla sua esperienza nel mondo accademico e in quello dell’accoglienza, ci offre una preziosa testimonianza pronta a scardinare gli stereotipi che attorniano la “questione africana”.
Sull’Africa è stato detto troppo e allo stesso tempo troppo poco ma sempre in modo errato. Le parole di Adam servono a farci cambiare prospettiva e sradicare una mentalità secolare che attornia il fenomeno migratorio e il dibattito riguardante un continente vastissimo, partendo proprio dalla suo percorso di vita e dalla sua esperienza nel sistema dell’ex SPRAR.
Ciao Adam, ti va di raccontarmi la tua storia?
«Certo. Allora, io vengo dal Mali e sono arrivato in Italia nel 2011, ancora minorenne. Sono sbarcato a Porto Empedocle, in Sicilia, e in seguito mi hanno trasferito in una struttura di accoglienza a Palma di Montechiaro. Dopo due anni e mezzo, compiuti 18 anni, mi hanno detto che non potevo più stare nel centro di accoglienza. Da lì sono andato a vivere con un amico e ho iniziato a fare lavoretti saltuari.
Quando ciò non mi permetteva più di avere un sostentamento economico consistente ho deciso di andare a Napoli, che mi avevano detto essere molto più organizzata della Sicilia dal punto di vista sociale e amministrativo. Qui ho fatto per la prima volta domanda di asilo politico e in seguito ho ottenuto la protezione umanitaria, poi sostituita da quella sussidiaria. Oggi lavoro come mediatore culturale presso il Comune di Napoli e studio Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l’Università L’Orientale».
La situazione delineata da Adam è molto diversa da quella che permea il nostro immaginario collettivo: dalle sue parole emerge che in Africa (la quale ci ricorda essere un continente comprendente 54 Stati, non un unico Paese), le migrazioni interne sono molto comuni e la maggioranza delle volte non sono spinte da disagi economici.
Infatti, Adam è cresciuto tra Mali e Costa d’Avorio, per poi seguire lo zio in Libia, dove sembrava aver trovato una certa stabilità: lo scoppio della prima guerra civile contro il regime di Gheddafi nel 2011 e il colpo di Stato in Mali (che ha poi visto un susseguirsi di giunte militari in quella che sembra una “transizione perpetua”) nel 2012 l’hanno costretto a venire in Italia.
Tu sei anche molto impegnato nel mondo dell’attivismo. Di che cosa si occupa ASDA, l’associazione di cui sei tra i fondatori?
«La nostra associazione si chiama ASDA, Associazione Studenti e Diaspora Africana. Nasce proprio negli ambienti universitari dalla presa di consapevolezza che le esigenze dei ragazzi della diaspora sono molto differenti da quelle degli italiani, partendo proprio dal tortuoso iter per ottenere il permesso di soggiorno e dalle sofferenze che dobbiamo patire di fronte alle questure – è qualcosa che una persona bianca non potrà mai capire fino in fondo.
Noi oggi aiutiamo gli studenti immigrati fornendo loro orientamento e supporto nella presentazione dei documenti che occorrono per studiare qui, oltre a permetter loro di svolgere tirocinio presso di noi. In seguito, l’Associazione si è espansa sempre di più e tra le sue fila oggi conta numerosi studiosi dell’area africana e semplici lavoratori: oltre ad offrire una narrativa differente sull’Africa, organizziamo seminari, eventi interculturali e scambi linguistici – ciò ci ha permesso di presentarci al mondo come soggetti attivi».
Infatti, come si può leggere sul sito di ASDA, tra gli scopi dell’Associazione c’è proprio la “volontà di rompere con la narrazione tossica su Africa e migrazioni, ancora stretta tra pietismo ed una visione gerarchizzante dell’Altro […] L’ Africa è qualcosa di molto diverso dalla somma delle ombre e delle angosce dell’Occidente.”
Immagino che tu, come molte altre persone nere in Italia, sia stato vittima di razzismo. Secondo la tua esperienza, nel nostro Paese è più presente il razzismo istituzionale o quello individuale proveniente dalla gente comune?
«Direi entrambi. Per quanto riguarda il razzismo dall’alto, ho avuto diversi episodi spiacevoli con le forze dell’ordine: una volta in Questura un poliziotto ha rifiutato di aiutarmi con il permesso di soggiorno, mi ha insultato, minacciato e spintonato. Più di recente, un gruppo di tre poliziotti che non si sono identificati mi hanno afferrato per strada, stretto forte il collo e sbattuto sulla volante, come successo a George Floyd.
Invece, tra l’opinione pubblica sono ancora molto radicati degli stereotipi, non per forza legati al razzismo in senso stretto ma generati da una profonda ignoranza di cui tutti noi figli della diaspora abbiamo avuto esperienza (e ciò è proprio quello che ASDA cerca di combattere). Per molti anni ho preferito andare in bicicletta piuttosto che prendere i mezzi pubblici proprio per evitare i commenti della gente legati a cliché sul mio aspetto e i miei vestiti.»
Molti direbbero che la tua storia è quella di “qualcuno che ce l’ha fatta e si è integrato”, non pensi che questa retorica sia dannosa e de-responsabilizzi la collettività dal prendere sul serio la questione dei migranti?
«Assolutamente, sono d’accordo. Infatti, al posto di integrazione, preferisco parlare di co-abitazione e inclusione nella società. Ovviamente non possiamo abolire il termine integrazione perché la sua esistenza ha un senso, soprattutto dal punto di vista giuridico, anche se credo che nell’arena pubblica si abusi troppo di questa parola. Molti ritengono che gli immigrati debbano assimilarsi a 360 gradi e penso che ciò sia errato: non spetta a nessuno dirmi come devo vestirmi e comportarmi.
Dobbiamo porci il vero problema riguardante l’integrazione, ossia interrogarci sul perché le persone non si inseriscono nella società e non co-abitano rispettandosi a vicenda: questo dipende dal nostro approccio all’accoglienza e da tutte quelle sovra-strutture spesso non visibili che generano i nostri orientamenti, come diceva Michel Foucault.»
L’ignoranza di cui parla spesso Adam, come da lui confermato, è frutto dei mass media e delle piattaforme di comunicazione, presente in primis in certi programmi televisivi propagandistici del nostro Paese molto seguiti. A questo si aggiungono gli stereotipi sull’aspetto esteriore che accomunano tutti gli immigrati africani, spesso accusati di essere “troppo integrati” e aver perso di vista la propria terra d’origine o, al contrario, di essere ancora troppo legati alla madre patria.
Thomas Sankara diceva che l’aiuto umanitario crea mendicanti. Sei d’accordo con questa affermazione? Per te il mondo della cooperazione internazionale è ancora circondato dalla mentalità del “salvatore bianco”?
«Si, assolutamente e proprio per questo dobbiamo lottare contro gli stereotipi. Queste ONG sono la rovina delle giovani menti dell’Africa e hanno una ricaduta sulla mentalità, sull’ideologia degli stessi dirigenti africani. Anche a me stesso è capitato delle volte di scadere nella retorica vittimista riguardante la povertà in molti Stati africani: questi discorsi non hanno ricadute positive sul patriottismo ma non fanno altro che alimentare lo jihadismo, che come vediamo sta prendendo molto piede nello stesso Mali e in Burkina Faso.
Come affermato da Lilian Thuram e Frantz Fanon, il pensiero bianco è ancora molto radicato in tutti i Paesi vittima della colonizzazione: il razzismo è la spina dorsale dell’imperialismo, che a sua volta poggia sulla schiavitù messa in atto tra il ‘700 e l’800 e nata proprio dalla società borghese capitalista. Ci hanno colonizzato anche la mente, dicendo che il pensiero bianco sia il migliore in assoluto. Le grandi organizzazioni umanitarie contribuiscono proprio a riprodurre queste idee figlie delle élite occidentali.»
Vorrei concludere chiedendoti: secondo la tua esperienza, sono ancora importanti valori come il panafricanismo e la solidarietà tra i popoli africani?
«Il panafricanismo vive e regna in Africa, anche se ormai non se parla più in Italia ed Europa. Bisogna anche sottolineare che oggi esistono molteplici modalità di approccio al tema: io mi trovo spesso d’accordo con il pensiero dell’attivista franco-beninese Kémi Séba. In Costa d’Avorio, invece, il panafricanismo è oscurato dall’assimilazione e dal pensiero bianco e appare dunque snaturato del suo significato più profondo. Reputo che l’Unione Africana è stata molto abile nel diffondere la solidarietà tra i Paesi africani e nel fermare il dilagare delle guerre tra di loro, benché l’Occidente ci racconti tutt’altro. L’Unione Africana ha avuto successo proprio perché ha indossato un abito panafricanista, al fine di creare una convivenza armonica e pacifica.»
Gettando una boccata d’aria fresca sul dibattito instauratosi in Occidente attorno alla questione migratoria e alla narrativa che circonda i Paesi africani, Adam Cerecere ci invita a demolire il nostro pensiero da «white savior» e a farci aprire gli occhi di fronte a problematiche che spesso non siamo in grado di vedere: il suo è un magnifico insegnamento di fratellanza, rispetto e comprensione dell’altro.
Sara Coico