Si parla di Brexit, delle elezioni il 26 giugno in Spagna, delle amministrative appena concluse in Italia, della vittoria del primo sindaco musulmano a Londra. Il voto è un diritto e un dovere civile. Ma l’affluenza a quanto ammonta, in tutta Europa? Uno sguardo più ampio può forse aiutarci a dare una giusta dimensione alla condizione italiana.
Affluenza alle urne: sembra diventata, questa, una frase da articolo scottante in periodo di elezioni e di voto, una di quelle standard con la quale si potrebbe scrivere un pezzo di attualità con un generatore automatico -e a giudicare come certi argomenti vengono trattati dalla stampa italiana, potrebbe pure essere davvero così-.
Si sono concluse, in questi giorni, le amministrative comunali con la gioia e il gaudio del Movimento Sammontana -ah, non, non è quello il nome- a Roma e Torino; proprio oggi, in Inghilterra, si vota per il fatidico Brexit e presto si discuterà molto più animatamente intorno le elezioni in Spagna; per non parlare del caso non solo politico, ma di stampo più sociale che ha suscitato l’interesse di tutti, ovvero il primo sindaco musulmano di Londra, Sadiq Khan; e poi ancora il referendum sulle trivelle e quello sulla costituzione che affronteremo ad ottobre: tutti esempi recenti e ancora pulsanti di passione in cui il diritto al voto ha fatto discutere, ha alzato polveroni e indotto ad analisi di ogni genere.
In Italia i dati sembrano ogni anno sempre più bassi e drammatici. L’astensionismo è sempre in crescita, se il fattore prevalente della questione sia il menefreghismo dilagante del “tanto so’ tutti ladri, che me ne frega” o la totale sfiducia nelle istituzioni del “tanto so’ tutti ladri, che ci posso fare?”, ancora non è dato sapere.
Ma, uno sguardo sull’Europa può servire a ridimensionare e a focalizzare meglio la realtà italiana, confrontandola con quella delle altre nazioni. Ci sono paesi che hanno leggi particolari per quel che riguarda il voto, per fare qualche esempio: in Francia è possibile votare una volta raggiunti i 18 anni di età, ma è obbligatorio essere iscritti anche a una lista elettorale; oppure a Berlino il cittadino vota il Parlamento, il quale sceglie in seguito il presidente da eleggere; nel mondo ci sono 26 paesi con voto obbligatorio, e di questi 5 sono europei: Belgio, Liechtenstein, Lussemburgo e Cipro. Criteri, questi, che possono influenzare moltissimo il giovane Avente Diritto Al Voto che approda nel fantastico mondo della democrazia, fino a inibirlo. D’altronde, anche i nostri baldi giovani Aventi Diritto Al Voto davanti al “fai npo’ come te pare, ché tanto se fai male è tutto guadagno nostro” si inibisce e/o si impigrisce e se ne sbatte, quindi prima di gridarci contro l’un l’altro sentenziando quale dei due metodi sia il migliore, bisognerebbe valutare bene i contesti.
Alle elezioni comunali europee delle ultime tornate, risulta che Madrid è al primo posto per affluenza. L’Italia la troviamo al terzo posto, prendendo come riferimento le comunali di Roma e all’ultimo, non parrebbe ma è così, ci sta proprio Londra.
Alle elezioni del Parlamento Europeo del 2014, il Belgio risulta al primo posto con un’affluenza del 89,64%; al secondo posto il Lussemburgo con 85,88% e al terzo posto Malta, che affluisce per il 74,8%. L’Italia entra quantomeno nella top ten piazzandosi al quinto posto con un’affluenza pari al 57,22% e, scendendo giù giù fino all’ultimo posto troviamo la Repubblica Ceca con solo il 18,02%.
L’Italia, insomma, non è poi messa troppo male. Possiamo distenderci sugli allori, per questo? Ovviamente no. Il principio del voto obbligatorio in certi paesi è quello di insegnare -nel senso stretto di “lasciare il segno”- che il voto non è solo un diritto con il quale riempirsi la bocca di populismo, ma è anzitutto un dovere civile. I pro e i contro di un’imposizione tale ci sono e saranno anche discutibili, per quanto non è certo imposta una scelta, ma solo l’atto in sé, il che significa che al cittadino resta tutta la libertà che concerne prendere coscienza di fare una scelta politica. Il dubbio è: cos’è peggio? L’atto imposto o l’abbandono a sé?
L’affluenza al voto è dunque dipendente da un unico grande fattore: il senso di appartenenza civile. Se tutti tenessimo a mente che noi apparteniamo alla nostra realtà, cioè non ne siamo solo succubi, ma noi stessi la dinamizziamo, votare non sarebbe poi così superfluo e la minaccia di astensionismo cadrebbe nel vuoto come un brutto sogno.
E se ricominciassimo ad appartenere?
fonte dei dati: blog.openpolis.it
Gea Di Bella