Con l’approssimarsi del 29 novembre e l’attesa per il Black Friday che si fa sempre più incalzante, a cui seguirà poi la frenesia degli acquisti natalizi, era quasi doveroso affrontare la seguente questione: il lato oscuro degli affari su internet.
Sarà capitato anche a voi infatti, di ordinare un prodotto tramite una delle varie piattaforme di e-commerce, attirati dai prezzi decisamente convenienti, e vedervi recapitare a casa un ingombrante pacco: tutto farcito di pluriball, stipato di polistirolo, in una mummia di strati di cellophane, o carta marrone. Magari proprio per farvi consegnare la vostra ultima borraccia riutilizzabile, oppure il vostro nuovo spazzolino di bambù. È il lato oscuro degli affari su internet, e sta generando un’amara – a tratti ironica – polemica, fra gli utenti della rete.
Più che per mostrare il proprio nuovo acquisto infatti, capita che il momento dell’unboxing (espressione molto di tendenza nel mondo degli influencer, per definire lo spacchettamento, il disimballaggio) venga fotografato, filmato, e scrupolosamente documentato, per denunciare la quantità di materiale (inutile?) che accompagna il prodotto.
(È probabile che prima di mostrarvi il video, Youtube vi abbia presentato la pubblicità di uno di questi siti nel mirino del sovra-imballaggio.)
Gli affari su internet non convengono al pianeta
Potremmo discutere di come piattaforme fra cui Amazon, Ebay, Wish ecc. abbiano reso esangui e boccheggianti i negozi “tradizionali” fisici, prime fra tutti le librerie. Ma non sono gli unici a perderci, mentre noi ci riempiamo le case di pezzi d’arredamento, e così pure abbigliamento, elettronica, libri, oggettistica, e infine persino beni alimentari, a prezzi da affare.
A saldare il conto è difatti innanzitutto il pianeta: le cui discariche si riempiono di materiali non riciclabili, la cui atmosfera pullula di gas da combustione, e i cui oceani sono attraversati dai flussi di plastica.
Ma è soltanto cartone – penserete
Sì, ma oltre al fatto che quel cartone lì, da qualche risorsa terrestre deve pur esser stato creato (e gli alberi non se la passano molto bene ultimamente), il processo di riciclaggio di carta e cartone è pure impattante sull’ambiente: innanzitutto, i materiali devono essere raccolti, quindi trasportati fino al centro di smistamento, e poi a quello di lavorazione; qui, rimestati in enormi vasche d’acqua, si trasformano in una “pasta di carta” che dovrà essere infine seccata – chiaramente, con un gran dispendio di energia. Non ultimo, il cartone non è riciclabile all’infinito, ma soltanto una decina di volte.
Non poteva mancare lei, l’onnipresente e controversa plastica
Già, perché nel lato oscuro degli affari su internet, dentro alla scatola di cartone è probabile che si trovi un ulteriore groviglio di carta, altrimenti una matassa di pluriball, cuscinetti d’aria e/o polistirolo. I primi due sono riciclabili – se correttamente differenziati nei rifiuti – mentre il terzo finirà bruciato, poco dopo aver visto la luce. E con la nuova tassa sulla plastica prevista nella manovra del Governo, sarà da vedere come se la caveranno i siti di e-commerce per effettuare le consegne. (Ad esempio, con un rincaro dei costi di spedizione?)
Senza contare che tutti questi imballaggi – indomiti compagni dei nostri affari su internet – devono essere allo stesso modo trasportati da chissà quale paese, fino alle nostre case. Le stime calcolano che così, migliaia di container – riempiti per lo più d’aria – attraversano ogni giorno il pianeta, rilasciando un quantitativo di CO₂ pari a quello prodotto dal Belgio in un anno.
Il motivo? Assicurare al cliente la garanzia di un prodotto integro e privo di difetti.
Per porre rimedio, le soluzioni guardano in diverse direzioni: alcuni inventano macchinari che scannerizzando il prodotto da spedire, “aggiustano” l’imballaggio adattandolo alle sue dimensioni (ma per ora, questo meccanismo funziona solo per l’altezza dell’oggetto); altri, più ingegnosi, hanno pensato a un sistema di imballaggi riutilizzabili.
Attenzione: non stiamo parlando di riutilizzare il pluriball come antistress, bensì di un involucro ripiegabile – così adattabile alle diverse dimensioni, senza inutile materiale di riempimento – ma soprattutto, che il cliente potrà re-imbucare senza alcun costo nella cassetta della posta, in una sorta di sistema “vuoto a rendere”. In questo modo, lo stesso imballaggio potrà continuare a viaggiare e visitare le case di altri utenti. Unico neo: sareste disposti a pagare qualche euro in più, nella scelta fra questo e il metodo di spedizione convenzionale?
Inoltre, un altro fattore da considerare per il cliente virtuoso che preferisce il sistema dell’imballaggio riutilizzabile, è che prima di tornare in azione, questo dovrà far ritorno al centro che l’ha progettato, situato in Estonia. Ciò significa inevitabilmente un tragitto di chilometri e chilometri su strada, così da poter essere pulito, riparato e rimesso in uso. C’è perciò, evidentemente, un dispendio di energia e di CO₂ anche in questo caso, ma forse è il caso di dire, come si è soliti: “il fine giustifica i mezzi”? Meglio infatti che tali risorse servano a ridare nuova vita agli imballaggi, piuttosto che farli morire in discarica, negli oceani o nell’inceneritore.
Alice Tarditi