“Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata…” Queste parole strazianti sono tratte da “La notte” di Elie Wiesel, tragico racconto della sua odissea nei campi di concentramento di Auschwitz, Monowitz e Buchenwald. Ieri, 2 luglio 2016, “l’uomo che vide Dio appeso ad una forca” si è spento all’età di 87 anni.
Wiesel, premio Nobel per la Pace nel 1986, fu costretto ad assistere agli orrori dei lager nazisti a soli 16 anni, ed è ritratto in una foto scattata il giorno della liberazione del campo di Buchenwald. Emaciato, malato, sofferente. Ma vivo. Il ragazzo vide la sua famiglia separarsi e sparire nel nulla, e ricevette la benedizione – maledizione di sopravvivere ad orrori inenarrabili, inconcepibili, ma che al giorno d’oggi continuano a riproporsi senza sosta.
Memorabile la visita di Elie Wiesel ad Auschwitz, nel 2006, accompagnato da Oprah Winfrey. Nessuno sa cosa abbia provato l’uomo nel visitare il tremendo campo di sterminio che gli portò via in un colpo solo la sua famiglia e la sua adolescenza. Lo scrittore ebraico statunitense ricevette il premio Nobel per la Pace, con la speranza di non dimenticare. Ed invece, a dispetto della Giornata della Memoria, sembra che la gente impieghi poco tempo a dimenticare.
“Dietro di me sentii il solito uomo domandare: – Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
– Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…”
Questo è un tristemente celebre passo tratto da “La notte”. Wiesel era solo un ragazzo, e vide cose che nessuno si augurerebbe mai di vedere, men che meno un ragazzino.
Con la morte di Elie Wiesel è come se se ne andasse l’ultimo, importante pezzo di memoria collettiva ebraica. Un uomo coraggioso, che sfidò letteralmente la morte, e vinse. Non ci sono parole per descriverlo. Addio, grande uomo.